Fino ad un anno fa, pensavo il contrario: invece, quest'anno voglio impegnarmi a rendere concrete le buone intenzioni di fine 2010. E ce ne sono tante.
Reduce dalle solite vacanze in Sardegna, voglio raccontarvi una storia.
Una storia vera, una storia di felicità.
I protagonisti si chiamano Pietrino e Wilma, sono sulla settantina e sono i miei vicini di casa in Sardegna.
Lui è sardo della Gallura, lei olandese.
Si conobbero negli anni Cinquanta-Sessanta: lui bello e ventenne, lei babysitter straniera che non parlava una parola d'italiano, lingua che anche oggi parla a modo suo (con marcatissimo accento olandese-tedesco, mischiato al gallurese).
A gesti iniziò la loro storia d'amore: giovanissimi si sposarono, in una Sardegna nella quale alla sposa era ancora richiesta una dote congrua, mentre la fanciulla in questione aveva da offrire solo sé stessa.
Il loro matrimonio, sul quale nessuno avrebbe scommesso, dura da cinquant'anni, di cui una quarantina passati sotto l'occhio vigile della leggendaria madre di lui, la Signora Maddalena, divenuta celebre per l'età alla quale è morta (qualcuno giura che avesse ben più di cento anni). La signora viveva in una casa attaccata alla loro, e dio solo sa come potevano essere le suocere sarde di mezzo secolo fa, specialmente con nuore straniere e guardate con sospetto.
Oggi chiunque li conosca potrebbe affermare che sono due persone felici. Veramente felici.
Due vecchi innamorati con figli grandi, nipoti e campagna tutt'attorno: un cinghiale di nome Charlie in cortile, un cane, due gatti, mucche, capre, pecore, asinelli, dituttodipiù. Che d'estate vanno insieme a nuotare nel mare più bello della Sardegna e accudiscono le loro bestie, vivendo a contatto con la natura, mangiando carne arrostita e ridendo, e vivendo spiritosamente il loro amore.
Forse è questa la felicità.
Donne, fino a che punto siete pronte a tenervi stretto un uomo?
Annarita Buonocore era pronta a tutto, anche a rapire il neonato di un'altra mamma dal nido.
Infermiera, incensurata, amante di un uomo sposato. Lui la mette incinta, e lei è convinta di tenerlo legato a sé in virtù della sua gravidanza. Poi, qualcosa va storto: perde il bambino, fingendo però di essere ancora incinta.
E poi le capita per le mani questo neonato, appena registrato all'anagrafe come Luca, così piccolo da poter essere verosimilmente suo figlio: nato nell'ospedale dove lavora, la madre non sospetta nulla, è un'occasione irripetibile. Che Annarita non si lascia sfuggire: rapisce il neonato, nato il giorno prima, e lo presenta all'amante come figlio suo.
E dire che è madre di due figlie, di 11 e 19 anni, alle quali ha raccontato che per motivi di salute aveva dovuto portare a casa il bambino per accudirlo.
Morale della favola: ora è in isolamento nel carcere di Fuorni (Salerno), sorvegliata a vista e accusata di sequestro di persona e maltrattamenti.
Per quale uomo può valere la pena finire così?
Di lui sapevo tutto, dal nome del padre a quello della sorella, dal nome della via nella quale abitava completa di numero civico, al telefono di casa. Sapevo addirittura in che ospedale era nato, e di quale città.
Avevo solo sette anni, ma già allora sapevo come impegnarmi per ottenere ciò che volevo. Ciò non toglie che il mio sia stato un vero, grande, primo amore soprattutto perché rimasto totalmente platonico, non consumato nemmeno in una passeggiata mano nella mano.
Il ricordo di quella prima, focosa cotta mi ha accompagnata negli anni, così come l'immagine di quello che, col tempo, è diventato un gran bel ragazzo: lineamenti meno delicati di quando era bambino e sembrava un principe indiano, già allora harem-dotato (non ero l'unica ad avergli messo gli occhi addosso, nel cortile della scuola).
Si circondava altezzoso di un corteo di amici bruttini e meno inclini a fare i leader, e correva avanti e indietro per farsi notare: irresistibile.
Stanotte l'ho sognato, come a testimonianza che non l'ho mai dimenticato. Ha affiancato la mia esistenza suo malgrado, nel ricordo e nella realtà di quando lo incrociavo per caso e la pancia mi si rimescolava al ricordo dei miei sette anni. E' capitato più e più volte, a distanza di anni: ad una sola occhiata ci si riconosceva, ci si emozionava e si continuava ciascuno per la propria strada. Tanto cambiati, tanto diversi l'uno dall'altra. L'ho visto fidanzarsi con ragazzette insignificanti e lasciarsi subito dopo, iscriversi alle superiori, andare al lavoro.
Volente o nolente, è entrato nella mia vita. E senza sfiorarmi.
Denis, quando passa momenti tristi o semplicemente malinconici, parla di "blues". Bene, è quello che provo io in questo momento. Un blues lento, struggente, che mi prende quando mi trovo da sola con me stessa.
Guardo foto di vecchi compagni di scuola andati all'estero allo sbaraglio, come forse avrei voluto fare io ma come non avrei potuto, se non per incoscienza.
Leggo tristi annunci di lavoro, dai quali si evince che le uniche professioni a non soffrire della crisi di questi tempi sono l'operatore di call center, la commessa, la cameriera, il venditore, l'agente immobiliare, il rappresentante porta-a-porta. E mi ritengo fortunata perché riesco a lavorare come hostess e ho rimediato un colloquio come segretaria. Vedi baby, c'è di peggio.
Guardo persone che sgomitano disperatamente pur di farsi notare e, sotto sotto, le capisco.
Ho paura. Paura di non farcela, di non essere mai abbastanza adatta: al lavoro, alla vita di coppia, alla realtà che mi circonda. Mi sento come regredita di un anno: quando quasi un anno fa mi laureai e dopo sei giorni trovai il facile approdo di un bel lavoro in regola nel campo che mi interessava. Ottocentocinquanta euro ballerini, non male come stipendio per il mio primo vero lavoro. Poi la noia, la routine, con mansioni sempre meno interessanti e istruttive.
Dopo sei mesi, quella fase è finita. Con tutto l'ottimismo e la voglia di trovare una valida, e più stimolante, alternativa.
Sono passati tre mesi. Nei quali ho riordinato la casa, sentendomi a tratti casalinga disperata a tratti buona massaia, ho smaltito gli scatoloni di un trasloco tardivo, ho cucinato, ho pianto, ho riso, ho tentato di riorganizzare dignitosamente la mia vita, inviando decine di curricula, di foto, di e-mail, di lettere di presentazione.
Avevo seminato come mai, ma non è servito a molto.
Mi dicono di avere pazienza, e hanno ragione. Devo riempirmi la vita: non solo di lavoro, ma di ciò che amo. Inganno la solitudine facendo la spesa, perdendomi fra gli scaffali colorati dei supermercati: ma questo non basta più.
Sveglia, Giulia.
Stanotte, un sogno di quelli che non si possono dimenticare.
Sono una maialina: non in senso lato, nel vero senso della parola. Portata al macello, in un ambiente diviso in tre stanze: la prima abbastanza grande, la seconda gigantesca con tanto di armadi guardaroba, la terza piccola e angusta, e senza una parete sul retro: alla mercé del mondo. Mentre mi trovo lì, ricevo telefonate: da mia nonna, da mio padre, da mia zia e da un'amica che non vedo dal secondo anno di università. Transito nelle tre stanze, e quando entro volontariamente nella terza, quella definitiva e senza ritorno, sento che la mia fine è vicina. Guardo dietro di me e vedo una strada: oltre la curva, sicuramente, qualche predatore che si ciberà delle mie carni.
Strano nutrire ora timori che avrei dovuto avere sette mesi fa.
Io non esisterei senza la carta. La carta dei miei libri, che fin da piccola annusavo con avidità. La carta dei bigliettini che confezionavo per parenti e amici da piccola. La carta che scartavo per denudare morbide Morositas che divoravo in un sol boccone. La carta sulla quale scarabocchiavo donne nude e polli arrosto fumanti (e, in assenza di quella, mi accontentavo dei muri della mia cameretta).
Solo oggi mi rendo conto di quanta carta sia riuscita ad accumulare in ventitré anni di vita. Articoli che tenevo da parte certa che mi sarebbero stati utili in futuro, pubblicità accattivanti, foto di moda le cui modelle avrei voluto scontornare e appendere al muro, intere riviste, depliant, cartoline, brochure di mostre, biglietti di cinema, teatro, concerti. E poi libri, tanti libri da esserne sommersa.
Non sono cambiata, e forse soltanto Bradbury con il suo Fahrenheit 451 potrebbe venirmi in soccorso dando tutto alle fiamme. Due decadi di vita, poche ma intense. E poi, i ricordi. Tanti. Tra foto in bianco e nero dalle quali dardeggia lo sguardo arabo di mia madre giovane, mia nonna sgambata e sorridente, mio nonno che mai conobbi ma che avrei dovuto conoscere, Roald Dahl e Matilda, Bianca Pitzorno e Prisca Puntoni, Pinin Carpi e Lupo Uragano, Margaret Mahy e i suoi pirati: tutto in cenere.
Ripensandoci bene, scelgo la polvere, il peso, il profumo.
Inizio col dire che la serie tv Mad Men è davvero bella. Si chiama così dal nomignolo affibbiato, nel corso dei Fifteens, ai pubblicitari americani, che sono i protagonisti (apparenti) della serie.
In realtà, le vere protagoniste di Mad Men sono le donne. Pettinature cotonate e bigodinate, tette a punta sotto golfini attillati ma castigati, gonne a ruota, rossetto perfettamente vermiglio su pelle di porcellana. Mogli, amanti, lavoratrici e per questo svergognate. Con mariti fedifragi, amanti avidi, ruoli determinanti ma sempre sotto banco.
Tutte floride come muffins e con guance rigogliose. Tanto rassicuranti nel corpo quanto minacciose nei reggiseni bullet, quelli a forma conica che rilanciò Madonna durante il Blonde Ambition Tour del 1990. A volte finto-innocenti poi ambiziose senza appello, come la giovane segretaria alle prime armi (e alle prime seduzioni). Schiette nel proprio potenziale seduttivo come la voluttuosa segretaria rossa di capelli e di abiti che sculetta da una scrivania all’altra. Perfettine e inquiete, come la moglie bionda e gracekelliana del protagonista Don Draper: vitino di vespa, abilità culinarie, un passato da modella e due figli nel curriculum vitae. Indipendenti e guardate con sospetto sia da uomini che donne, come la madre single Alice e l’ereditiera imprenditrice munita di rifinitissimi tailleur Chanel.
Donne alla ricerca di un posto del mondo, che cominciano a capire che il matrimonio non è tutto.
L’ultimo Natale prima della svolta, il Natale definitivo. Doveva essere il più bello, il più sereno, il più carico di aspettative: invece rischia di essere un deterioramento. Di affetti e di nervi.
Un film a lume di candela, i pensieri fatti col cuore incartati con la massima cura, la micia calda sulle ginocchia. Due bicchieri tintinnanti di buon vino, una cenetta semplice e gustosa, il piacere di convidere uno degli ultimi momenti insieme, prima del distacco.
Basterebbe poco, così poco, per renderlo speciale, per salvarlo da stupidi e inutili rancori. Basterebbe poco per venirsi incontro, e commentare quanto è accaduto nell’unico modo possibile: con un abbraccio.
Cercasi una/o o due gatte/i, cucciole/i o adulte/i, da adottare. Di buon carattere, dolci, affettuosi, anche menomati o malati, comunque bisognosi di coccole e amore. Garantiti affetto, adorazione barra venerazione perenni e sempiterne (anche post mortem), una casa calda, tanti posti morbidi dove accoccolarsi, ben quattro ginocchia sulle quali fare la lana, due paia di mani per accarezzarle/i e due umani per vezzeggiarle/i. Offresi, inoltre, fornitura a vita di croccantini, scatolette e bastoncini affilazanne, nonché lettiere olezzanti.
Se hai gatte o gatti di cui disfarti, citofona Giulia & Denis. :)
Ormai è fatta. Tra un paio di mesi, probabilmente, riuscirò ad andare a convivere con Denis e ad iniziare una nuova vita. Le basi paiono ottime: un lavoro appagante, istruttivo e retribuito con busta paga, una nuova casetta calda e accogliente, una gatta semprepiùprociona, un nuovo e inconsueto clima rilassato, una madre più serena, la voglia di ricominciare da capo. Come una donna.
Ebbene sì: compio 23 anni il 23 settembre. Non del 2023, altrimenti sì che ci sarebbe da preoccuparsi.
Ancora per oggi ho 22 anni, mi sono laureata il 22 luglio 2009, oggi è il 22, giorno in cui sono nate mia zia e Ornella Vanoni, un po' di anni fa.
Domani faremo gli anni io e Gino Paoli (che, curiosa coincidenza, in passato è stato compagno di Ornella Vanoni).
Come mi sento? Realizzata. Il 28 luglio, a sei giorni dalla laurea, ho trovato un impiego, e nel settore che mi interessa, che conosco di più e per il quale mi sento portata.
Sono partita per le vacanze senza l'incombenza futura di dover trovare un lavoro e il primo settembre alle 9:00 ero in redazione. Ho iniziato, felicemente e senza rimpianti, e così sto continuando. Lavorare mi piace, e farlo a tempo pieno è quello di cui ho bisogno.
Avanti, che i 23 si facciano sotto.
Non l'ho mai conosciuto. E' morto quando mia madre aveva 19 anni, iniziava l'università e aveva disperatamente bisogno di un padre che la supportasse.
Aveva 57 anni, occhi dolci da cane mansueto, mani grandi e la pelle bianca, liscia.
Curiosamente, somigliava all'uomo che ho scelto di avere accanto: lo stesso chiarore candido, gli stessi occhi buoni, lo stesso carattere pacato ma determinato.
Era il '73 quando è morto. Posso solo ricordarlo attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, incrociato per caso, amato.
La nostra casa in Sardegna l'ha costruita lui, con le sue mani, quarant'anni fa, sul terreno comprato da un possidente del posto.
Che per puro caso ho incontrato quest'estate, mentre ero in vacanza.
Tre dita in meno sulla mano, causa pesca con le bombe. Carattere schivo, imbronciato ma fiero come quello dei sardi di una volta.
Lo scambio per un turista in cerca di cinghiali, o di fichi d'india.
E in effetti è in cerca di fichi, in tenuta mimetica e atteggiamento avventuroso.
Lo fermo, facendo una lecita gaffe.
Mi racconta chi è, che sua madre era grande amica di mia nonna, che è lui ad averci venduto la casa. Arrossisco, e mi scuso.
Suo nonno era per me un padre, un fratello. Tutti lo amavano.
Mi vengono i lucciconi, ma non mi faccio vedere.
Sì, mio nonno è stato un grand'uomo, e avrebbe meritato di vivere abbastanza per conoscermi, per conoscerci, me e le mie cugine.
Per fare ancora il suo lavoro, quello di maresciallo dei carabinieri, che sapeva fare tanto bene da entrare nei libri di scuola locali.
Per guidare ancora la sua moto Guzzi d'epoca, sulla quale stava fieramente in sella a vent'anni, in una foto ingiallita ma chiarificatrice.
Era bello, mio nonno. Affettuoso, presente poco ma veramente. Silenzioso, ma acuto.
Quanto mi piacerebbe averlo accanto ora. Con le sue storie, il suo tifo per me, il suo amore spassionato per l'unica figlia femmina e le nipoti, tutte femmine.
L'amore e la lealtà dignitosa verso sua moglie, mia nonna, tanto simile a me quanto lui assomiglia al mio uomo.
Lo sguardo tenero che rivolgeva ai figli addormentati quando andava a lavorare e rischiava di non fare più ritorno.
La sofferenza di mia nonna, che forse, se non si fosse sposata, si sarebbe realizzata di più a livello professionale, ma forse non avrebbe goduto della stessa, rara, tranquillità, unita ad una inconsueta libertà e fiducia da parte dell'uomo che stava al suo fianco.
Ci conosceremo, un giorno.
E ancora non riesco ad abituarmici.
Ieri ho chiamato al telefono il mio professore di storia e filosofia del liceo, genio indimenticato e indimenticabile.
Mi ha detto che, d'ora in poi, ci saremmo dati del tu: lui Piero, io Giulia.
"Ora siamo uguali", ha detto, trascurando il fatto di avere trent'anni di carriera come professore liceale alle spalle e una cultura mostruosa lui, appena tre anni di lavoro e una testa funzionante io.
Misteri della laurea.
Ieri sono stata me stessa, come se stessi affrontando un qualunque esame universitario o colloquio lavorativo: cordiale, sorridente ma mai ammiccante, sicura di me stessa, logorroica.
Tutto sommato, posso dire che ha funzionato: centodieci cum laude.
E ancora non riesco a capacitarmene.
Splendida nell'interpretazione di Lina Termini, fa parte della colonna sonora del film di Giuseppe Tornatore Malena.
Guardando le rose, sfiorite stamani,
io penso: “domani
saranno appassite”.
E tutte le cose
son come le rose,
che vivono un giorno,
un’ora e non più!
Ma l’amore, no.
L’amore mio non può
disperdersi nel vento, con le rose.
Tanto è forte che non cederà
non sfiorirà.
Io lo veglierò
io lo difenderò
da tutte quelle insidie velenose
che vorrebbero strapparlo al cuor,
povero amor!
Forse se ne andrai...
D’altre donne le carezze cercherai!...
ahimè...
E se tornerai
già sfiorita ogni bellezza troverai
in me...
Ma l’amore no
L’amore mio non può
dissolversi con l’oro dei capelli.
Fin ch’io vivo sarà vivo in me,
solo per te!
Avvertenza: NON è un post misogino e/o contro la donna tout-court, essendo la sua autrice una fan del genere femminile, quando non ricade nei suoi errori di sempre.
Dico a te, che sei di aspetto diciamo gradevole, con un'età compresa fra i 20 e 30 - ma anche più stagionata - con fidanzato a carico e quella che a tutti descrivi come una situazione felice: stabilità, viaggi, progetti in comune.
Di colpo, nella tua vita l'imponderabile, l'imprevisto, l'elemento destabilizzante: l'uomo al quale vorresti che il tuo fidanzato somigliasse, o che rappresenta quello che il tuo compagno è stato e non è più, e forse non sarà mai.
Il piacevole turbamento che ti scuote il tempo sufficiente a scoprirti a sognare di lui, del suo corpo, dei suoi baci, di quel suo sguardo obliquo che ti scruta e rimane in silenzio.
Senti che è un turbamento che desideri, nella tua piccola vita felicemanontroppo, abbastanza soddisfacente, abbastanza finchè non ti si presenta bruscamente la consapevolezza che puoi, vuoi, meriti molto di più.
Quel compagno diventato un peso morto, l'altro fantasia proibita e carezzevole prima del sonno e al risveglio.
Quel compagno lontano, in un altro paese, distante miglia e miglia, ottimo escamotage per evadere la solitudine senza impegno, senza eccessivo coinvolgimento.
L'altro un bellissimo diversivo dolcegiocososensuale, con il quale baciarsi, accarezzarsi, lasciarsi coinvolgere finchè carezze e morsi lasciano il posto a sensi di colpa tardivi e immaturi.
Alla notizia che il legittimo viene, ti mostri contenta, come se nulla fosse successo, come se niente potesse incrinare il vostro rassicurantissimo rapporto sentimentale.
Ma poi, abbassato il ricevitore, il magone, il pensiero continuo che il suo avvicinamento paleserà in te la consapevolezza inalienabile del tuo tradimento.
Di quel tradimento che, se rivelerai, ti renderà ancora più vile e, se lo terrai nascosto, ti annienterà.
E allora lo fai: scrivi all'altro.
Parole gravi, solenni, mai rivolte finora.
Parole che simulano un distacco che ti brucia nel profondo, e che speri lo attiri/respinga sempre più.
In fondo, lui è la conoscenza di un mese, forse due, e in questo poco tempo ha portato scompiglio nella tua tranquilla esistenza.
Cosa che gli rimproveri, accusandolo di non essere programmato, di essere un imprevisto, una falla nel sistema che con tanta sicurezza ostenti.
Un debole castello di carte, che solo l'arrivo di uno sconosciuto intrigante può far precipitare in qualsiasi momento.
L'altro ne soffre, ne soffrirà, ma poi dimenticherà, odiando la tua fragilità, un'incoerenza tanto femminile, un fragilissimo autocontrollo che al primo sguardo cede passo alla passione.
Proprio a te, doppiamente infrangitrice di cuori, con il mio cuore in mano dico: scegli.
Le scelte appartengono agli adulti, ai buoni di cuore, ai coraggiosi e a tutti coloro che rispettano le aspettative altrui pur avendo piena consapevolezza della propria volontà.
Se seguiterai su questa strada, sicuramente opterai per la scelta che chiunque si aspetterebbe da te: la scelta più facile.
Abbandonarti, schiacciando sotto il rimpianto anticipato e i postumi sensi di colpa la tua irrazionalità, tra le braccia, del rassicurante, certo, legittimo fidanzato.
Rifugiarti nuovamente, dopo una breve boccata d'ossigeno e un assaggio di paradiso, nel tuo piccolo mondo "abbastanza felice", in cui sei amata ma vorresti solo fuggire, dileguarti.
Magari in compagnia di un amore abortito prima ancora che si affacciasse sulla tua coscienza.
Sceglierai questo, a scapito dell'uno e dell'altro.
A scapito di te stessa.
E io ti imploro: non farlo.
Colgo l'occasione di questo primo post di maggio per augurare idealmente buoni ottant'anni ipotetici all'icona che ha rubato il mio cuoricino di giovane donna cortocrinita: la divina Audrey Hepburn.
Se fosse possibile, ti augurerei (come minimo) altri cento di questi giorni.
Inoltre, poichè come è risaputo sono quasi sempre dalla parte delle donne, e mai come in questa occasione, colgo la palla al balzo per rivolgere un energico clap-clap alla donna italiana del momento: Veronica Berlusconi.
Divorzia e riducilo in mutande, l'unico augurio che mi sento di farti.
Una buonuscita da record è il giusto prezzo per 19 anni di matrimonio con un buffone lestofante e donnaiolo.
Torna ad essere Lario, se ti va.
Di certo, torna ad essere la Miriam Bartolini di una volta.
Non c'è che dire: la censura ha proprio un diavolo per capezzolo.
Una ragazza nuda guarda lo spettatore, girata per metà.
Segui con lo sguardo la piccola curva chiara e impertinente fino a che, in modo del tutto inaspettato, sfuma nella luce, o nel vapore, di una vasca da bagno illuminata dal sole.
La curva che sfuma nell'infinito ha un che di poetico, ma di certo non soddisfa lo spettatore famelico, guardone per sua stessa natura.
Soddisfa decisamente di più la censura cinematografica. Che ha ritenuto opportuno far scomparire il casto capezzolo di Laura Chiatti dall'altrettanto casta locandina del film di Roberto Faenza "Il caso dell'Infedele Klara".
Motivazione? È troppo sexy.
E dire che il capezzolo rappresenta l'ultimo baluardo della maternità femminile.
Punto focale della funzione materna, e al contempo del desiderio erotico di natura mammaria.
Che appartenga a nostra madre oppure ad una bella&giovane attrice italiana, che differenza fa?
Anche se non è pertinente, mi torna in mente il caso, non di censura ma di fotoritocco, dell'ombelico 'scomparso' dalla foto di una playmate di Playboy: un altro baricentro di maternità e sessualità che scompare, seppure per un maldestro lavoro di post-produzione, suscitando le ire dei lettori.
Sempre più di frequente, il corpo 'pubblico' della donna, quello sovraesposto mediaticamente, è manipolato e menomato, e quasi sempre da uomini.
In nome del decoro, in nome della bellezza.
E anche quello che incarna il valore più alto incarnato dalla donna - secondo la Chiesa - scompare.
Siamo sinceri: anche negli Usa, dannatamente bigotti, al capezzolo sarebbe toccata la medesima sorte.
Ma c'è una sottile differenza fra loro e noi: loro sono bigotti, noi baciapile.
Questo blog ha saltato un mese.
Un mese carico di significati, idee, emozioni, nuovi sviluppi.
Può, nello stesso mese, finire la carriera universitaria, prendere una svolta la carriera lavorativa, consolidarsi un amore, cambiare radicalmente una vita?
Può.
Carmela ha l'allegria contagiosa di una ragazzina, e il volto rugoso come un campo pronto per la semina.
Gli occhi brillanti, acuti, di un indefinito grigio-verde.
In bocca, tante parolacce e pochi denti superstiti di uno stillicidio senile, oltre ad un sorriso che scalda il cuore.
Carmela è analfabeta: non ha avuto la possibilità di studiare perchè doveva aiutare il padre nei campi.
Ha ottant'anni, e non si è incartapecorita nel rimpianto e nel rimorso.
Solo molti ricordi, belli, e una certa arteriosclerosi nel raccontarli cento volte sempre con le stesse parole.
Da giovane, doveva essere graziosa: piccola, minuta, grande seno, bei capelli, una bella fila di denti forti, risata contagiosa.
Una donna libera.
Una di quelle che se ne fregano di quello che dicono i compaesani di lei che mai si è rassegnata alla vedovanza, all'abito scuro, a rimanere sola.
Una che ha sempre saputo tenere testa agli altri, complice l'ironia, la lingua tagliente e la sincerità.
L'adolescente che andava al cinema e optava per il palchetto per poter pomiciare col giovanotto di turno.
La ragazza che, benchè non fosse più illibata da tempo, fece la 'fuitina' col marito.
La giovane che non si perdeva una festa di paese, un'occasione per ballare a suon di fisarmonica e violino.
La vecchia che si è fatta il fidanzato, as usual, di molti anni più giovane di lei.
Il quale, per paura del giudizio dei quattro figli maschi, avuti con quella buon'anima della moglie, le telefona solo di sera e, quando lei è al paese, la viene a trovare solo di notte.
Un Romeo&Giulietta in salsa arianoirpinese, ai tempi delle colf e delle dentiere.
Non sempre si fa per puro edonismo e ferrea volontà di oltrepassare i propri limiti di capienza intestinale e di decenza, come nel caso dei protagonisti del film di Ferreri.
A volte la causa è profondamente radicata, serpeggiante, visibile solo agli occhi di chi vuole guardare.
Flavia è bulimica.
Malata di quella bulimia di chi si abbuffa ma non vomita, accumula e non espelle.
Tra raid notturni alla dispensa e svuotamenti programmatici del frigorifero, cosicchè solo toccando il fondo qualcuno si accorga della nostra infelicità, del nostro desolato bisogno di affetto.
Flavia è affettuosa, "leggera" malgrado tutti questi pesi, spensierata e fiduciosa malgrado le privazioni continue alle quali è esposta da una madre bambina e da una nonna matrigna.
E per il non intervento di un padre simpatico ma inconsistente.
Ora è a Firenze, in un centro per bulimici.
Lontana dalla famiglia, e quindi con qualche speranza.
E' sostenuta, capita, scossa, alimentata, coccolata senza essere viziata.
E' circondata di persone che sanno, capiscono, non giudicano.
Flavia è salva.