
Soffiai
forte sulle unghie laccate di rosso ciliegia.
Fuori
albeggiava mentre io mi raggomitolavo nel piumone, slogandomi la mandibola a
furia di sbadigliare e aspettando pazientemente di poter infilare anche l’altra
mano sotto le coperte.
Non so
chi mi abbia messo in testa che cose tipo mettersi lo smalto o bere una tisana
vadano fatte rigorosamente prima di andare a letto, sta di fatto che crollasse
il mondo fin da bambina mi sono sempre attenuta rigidamente alla regola:
tisana, spazzolino, smalto, un vecchio film sentimentale e una bella dormita.
Stavo
per scivolare in un sogno che prometteva bene – la prosecuzione dei miei
pensieri a luci rosse sul giovane fattorino che mi consegnava la spesa a
domicilio – quando il telefono iniziò a strillare quel suo driin sempre uguale, fatto apposta per entranti direttamente nel
cervello.
A chi
diavolo poteva venire in mente di cercarmi a quell’ora? Imprecai in molte lingue
mentre incespicavo verso l’apparecchio.
«Sii?»
sbottai, decisamente poco cordiale.
Una
parola fuori posto e avrei messo giù.
«Buongiorno,
parlo con la signorina… Valenziani?»
Esitai
un attimo prima di rispondere, mio malgrado intimidita da quella voce
sconosciuta che aveva pronunciato il mio nome con elegante lentezza e un
impercettibile accento straniero.
«Sono
io. Chi mi cerca?»
«Lavinia
Coraini, avvocato. Andrò subito al punto, per non importunarla ulteriormente qualora
la mia proposta non la interessasse.»
Fece
una pausa e io non replicai, limitandomi a fare due più due.
Nel mio
caso una proposta poteva significare una cosa sola: soldi. Perché mai non
avrebbe dovuto interessarmi?
«Un mio
cliente desidera averla per sé durante il suo soggiorno in città. Alloggerete
presso una suite dell’hotel Continental, e il suo onorario le sarà anticipato
previa firma di un contratto, con il quale lei si impegnerà a rimanere con lui
per tutti e tre i giorni…»
«Hey,
rallenta!» esclamai.
Onorario?
Contratto? Ma con chi credeva di aver a che fare quell’avvocato, con un socio
in affari?
L’unica
cosa che mi era rimasta impressa del suo discorso era l’hotel Continental.
Quello si che era un hotel!
C’era
stata giusto un paio di volte, con dei clienti occasionali ricchi quanto
bastava per permettersi una singola senza servizio in camera, ed ero quasi
impazzita circondata da tutto quel lusso… Voglio dire, chi ci crederebbe mai
che ti lascino usare certi accappatoi che sembrano di velluto da quanto sono
morbidi?
Per non
parlare delle lenzuola.
Pura
seta, potrei giurarci.
«C’è
qualcosa che non le è chiaro? Il mio cliente non vuole rivelare il suo vero
nome, per ovvie questioni di privacy, ma garantisco personalmente che non ci
saranno sorprese sgradite. Non ha gusti particolari. Niente sadomaso né orge né
violenza. Se accetta, il suo compenso orario sarà di…»
Quasi
boccheggiai udendo una cifra che se andava bene riuscivo a guadagnare in una
settimana di lavoro a tempo pieno. Dov’era l’inghippo?
«Pagamento
anticipato?» chiesi.
«Certo.
È interessata?»
Se ero
interessata? Che diamine, era come chiedere a un bambino se anziché andare a
scuola gli sarebbe piaciuto fare un giro al luna-park!
«Quando
e dove?»
«Si
presenti domani sera alle sette nella hall dell’hotel. Il portiere è informato
di ogni cosa, le consegnerà l’assegno e le farà firmare il contratto, poi tutto
ciò che dovrà fare sarà andare in camera a farsi bella.»
«Domani?
Non è possibile, ho bisogno di almeno…»
Click.
Me ne
stetti lì per un minuto buono ad ascoltare il monotono tu-tu-tu
dell’apparecchio, riflettendo sul da farsi.
***
Il
portiere mi fece segno di seguirlo oltre una porta nascosta dietro un elegante
separé in canapa.
La hall
era piena di gente, fattorini in livrea si affaccendavano col sorriso sulle
labbra per servire un gran numero di ospiti in arrivo, la maggior parte dei
quali avevano da un pezzo passato la giovinezza e ostentavano l’aria di
annoiati uomini d’affari in trasferta.
Al mio
passaggio vidi più di una testa voltarsi a guardarmi e ne fui piacevolmente
sorpresa.
Sapevo
di essere molto affascinante nell’abitino da cocktail verde mela che avevo
comprato per l’occasione, ma nella sala non mancavano certo le belle donne.
Tutte raffinate ed eleganti, perfettamente in linea con l’ambiente, ma a un
occhio esperto come il mio certo non sfuggiva la realtà: erano tutte
professioniste.
Mi
chiesi da quant’è che il Continental era diventato un hotel di quel tipo.
Il portiere
mi fissava con la bava alla bocca aldilà della pesante scrivania in mogano,
tendendomi un assegno. Era basso e tarchiato, completamente calvo, e nonostante
l’aria condizionata sudava più di un maiale.
Che
sollievo non avercelo come cliente!
Quando
mi allungò il contratto mi chinai per firmarlo, consapevole del suo sguardo
sulle mie tette abbondantemente esposte. Il documento conteneva né più nemmeno ciò
che mi aveva anticipato l’avvocato: tre giorni a disposizione del signor Rossi
– certo che potevano metterci più fantasia nel nome! – per una cifra
astronomica.
La
penale, in caso di mancato rispetto del contratto, era recuperare le ore
mancanti mettendomi a disposizione dell’uomo quando questi avesse voluto.
Firmai
e consegnai il foglio a quell’ometto viscido.
«Prego,
mi segua, l’accompagno in suite» fece lui cerimonioso, cingendomi i fianchi con
un braccio.
In
ascensore temetti per tutto il tempo che mi sarebbe saltato addosso, invece si
limitò ad aprirmi la porta della suite e a spingermi delicatamente dentro con la
mano che intenzionalmente mi sfiorò il fondoschiena.
«Il
signor Rossi arriverà tra un paio d’ore» disse con un sorrisetto allusivo. «Se
ha bisogno di qualcosa non esiti a chiamarmi, sono a sua completa disposizione.»
Ma
certo.
Annuii
distrattamente e mi dimenticai di lui, tutta presa dallo splendore che mi
circondava.
Intuii
che se ne era andato quando sentii la porta chiudersi piano alle mie spalle.
La
suite faceva sembrare le stanze in cui avevo soggiornato in passato delle misere
e malriuscite messe in scena del lusso. Qui non c’era nulla di ostentato, di
eccessivo, di spudoratamente profumato di soldi; tutto era elegante e ricercato
ma al tempo stesso lieve, discreto e naturale come se non vi fosse alterativa
possibile: dai divanetti rivestiti di seta damascata al letto matrimoniale col
baldacchino, dalle tende impalpabili, che cascavano lucenti dal soffitto
dipinto a mano, alla moquette color crema, che assorbiva ogni rumore, ogni
movimento brusco, conferendo alla stanza l’atmosfera rarefatta di un sogno.
Decisi
che la mia toeletta poteva aspettare, feci scivolare l’abito a terra e
completamente nuda mi tuffai nella seta liscia e fresca delle lenzuola.
Mi
addormentai in un attimo.
Aprii
gli occhi ore dopo, con un vago senso d’inquietudine, percependo che qualcosa
attorno a me era cambiato. Rabbrividii strizzando gli occhi nell’oscurità.
Ero
certa di essermi addormentata con la luce accesa, e nel frattempo anche il
termostato doveva essersi spento, perché non ricordavo facesse così freddo
nella stanza. Istintivamente allungai un braccio verso la parete sopra il
letto, dove ricordavo c’erano diversi pulsanti.
Il
cuore si fermò in gola quando mi sentii afferrare il polso.
Una
stretta di ferro, salda e maschile, che quasi scottava sulla mia pelle
ghiacciata.
Con un
brivido mi resi conto di non essere più sola.
Era
così vicino che respiravo il suo odore – un misto di dopobarba, sudore e una
lieve traccia di tabacco, l’aroma che ho sempre associato alla mia idea di
uomo.
Quando
stavo per aprire bocca, per presentarmi e spezzare così quel silenzio irreale
che si era creato tra noi, le sue labbra dure e asciutte coprirono con forza le
mie, e all’improvviso sentii anche il resto. Mentre la bocca dell’uomo si
faceva strada dentro di me, divorando di baci ogni centimetro di pelle che
incontrava, il suo corpo scivolò sopra il mio e mi ricoprì tutta. Sentii che
doveva essere alto e massiccio, con muscoli duri e sviluppati, e istintivamente
mi avvinghiai al suo collo. Aprii le gambe e alzai il bacino per premergli
contro.
Era la
prima volta che avvertivo quel desiderio spasmodico fin da subito, senza
bisogno di preliminari.
Ma
evidentemente l’uomo aveva deciso di tormentarmi. Ogni volta che tentavo di
aprire bocca, me la richiudeva con un bacio rabbioso, esplorandomi in
profondità con la lingua calda ed esperta e facendomi sfuggire dalla mente ogni
frase sensata.
Quando
tentai di accendere la luce, mi ritrovai con entrambi i polsi immobilizzati
alla testiera del letto, il membro duro che spingeva contro le mie mutandine di
pizzo.
«Smettila
di divincolarti e stai zitta. Stanotte sei mia, te ne sei dimenticata?»
Aveva
una voce bassa e roca, esplicitamente autoritaria.
Il suo
ordine, sottolineato dalla forza con cui continuava a tenermi incatenate le
braccia, mi eccitò al di là di ogni immaginazione.
Sentivo
esplodere il bassoventre in piccole e frenetiche contrazioni, e lottai con
tutte le mie forze per liberarmi dalla sua stretta, arrivando a morderlo e
schiaffeggiarlo, temendo e sperando che lui avrebbe reagito con la giusta dose
di brutalità di cui lo sentivo capace.
Andammo
avanti in una tacita e consapevole rappresentazione di violenza sessuale, finché
lui decise che poteva bastare e mi penetrò furiosamente per un tempo che mi
sembrò infinito, alternando sapientemente colpi brevi e veloci a un martellare
insistente che mi fece gemere insieme di dolore e piacere.
A un
certo punto probabilmente svenni, perché non ricordo più nulla di quella notte.
***
Quando rinvenni,
lui non c’era.
Mi
guardai attorno, confusa, e quando feci per alzarmi sentii una forte fitta
trapassarmi il fianco.
Mi
sentivo a pezzi, stremata e dolorante come dopo una prolungata influenza, e
mentre barcollavo verso il bagno mi accorsi di avere anche una forte nausea. Dovette
passare parecchio tempo prima che trovassi la forza di trascinarmi al telefono
e chiamare il servizio in camera per ordinare la colazione.
L’uomo
che mi rispose rimase qualche secondo in silenzio, come interdetto.
«Stiamo
per servire la cena.» disse poi. «La signora desidera qualcosa in particolare?
Il menù del giorno consiste in…»
Iniziò
a snocciolare con voce atona una serie infinita di portate e io riattaccai, travolta
da una nuova e inaspettata ondata di nausea.
Guardai
l’orologio, erano da poco passate le diciotto. Se la memoria non m’ingannava,
esclusa la parentesi di sesso notturno avevo dormito per quasi venti ore dacché
avevo toccato il letto, la sera precedente.
Come
diavolo avevo fatto? Non avevo bevuto alcolici né preso sonniferi, di questo
ero più che certa.
Scrollai
le spalle. Poco male. Almeno per quel giorno non mi sarei annoiata.
Per
quanto ne sapevo, lui sarebbe potuto tornare da un momento all’altro, e non
potevo certo farmi trovare in quelle condizioni. Sentivo la pelle fremere, come
ustionata, e un fastidioso formicolio percorrermi ininterrottamente da capo a
piedi.
Forse
avevo la febbre, questo avrebbe spiegato tutto.
Il
pensiero di lui si insinuò prepotentemente nella mia mente. Subito mi illanguidii,
ricordando ogni cosa: la lingua calda che mi esplorava, il corpo duro come una
roccia, la prepotenza di ogni suo gesto… Tutto meno che il suo viso, che non
avevo avuto modo di vedere.
Per
professione ho scopato con una miriade di uomini, la maggior parte dei quali
decisamente brutti, alcuni addirittura tendenti al vomitevole, e posso
tranquillamente affermare che non me ne frega nulla.
Il
lavoro è lavoro.
Forse
era il caso che lo facessi presente a Mister Rossi, per quanto mi riuscisse
difficile immaginarmelo occhialuto e rugoso. Aveva un bel corpo, ci sapeva fare
molto più di tanti maschi che mi ero fatta per puro piacere, e a dirla tutta
dovevo ammettere che non vedevo l’ora di riprendere da dove avevamo interrotto
la sera prima.
Certo
al buio era stato eccitante, ma stavolta avrei deliziato anche i suoi occhi.
Trasalii
sentendo bussare alla porta.
Era
forse… lui? Di già?
Mi
affrettai allo specchio per tentare almeno di rendermi presentabile, ma quello
che vidi mi riempii d’orrore. Per dei lunghi secondi trattenni il respiro, incurante
dei colpi ripetuti alla porta.
Ero
davvero io, quella riflessa nello specchio?
Le
fattezze erano senza dubbio le mie – i capelli biondo miele arruffati, il naso
appuntito, gli occhi cerulei, la carnagione dorata – ma dimostravo per lo meno
dieci anni in più… Come aveva potuto una notte di sesso ridurmi in quelle
condizioni?
Contai
almeno dieci nuove rughe sul viso, per non parlare del seno rilassato e della
pelle flaccida, opaca come se non avesse mai beneficiato di una crema
idratante.
Frattanto
i colpi proseguivano, sempre più insistenti, e mio malgrado andai ad aprire. Lo
sguardo con cui mi accolse il portiere la diceva lunga sul mio aspetto.
«Il
signor Rossi avvisa che stasera tarderà. La invita a non aspettarlo alzata»
annunciò, palesemente a disagio. «Desidera che le faccia portare su la cena?»
Nonostante
gli stessi davanti praticamente seminuda, nei suoi modi non c’era più alcuna
traccia della sfacciata ammirazione del giorno prima. Sembrava solo desideroso
di andarsene al più presto.
Rifiutai
la cena e gli chiusi la porta in faccia.
Essere
schifata da quell’omuncolo viscido e sudaticcio era decisamente troppo per il
mio ego.
Quella
sera mi dedicai a una laboriosa preparazione, degna degli appuntamenti più
importanti: feci un lungo idromassaggio e spalmai abbondantemente la pelle di crema
idratante, mi truccai con cura, stirai i capelli e indossai uno dei completi intimi
più sexy e ricercati che possedevo, una guepiere di pizzo francese con
giarrettiera.
Contravvenendo
agli ordini ricevuti, avrei aspettato sveglia Mister Rossi.
Quella
sera ero ben decisa a essere io a condurre il gioco.
***
Capii
di essermi addormentata quando spalancai gli occhi nel buio e respirai il suo
odore acre, molto più forte rispetto alla sera precedente. Il cuore iniziò a
battere più veloce. Possibile che lui fosse lì, se il solo respiro che udivo
era il mio, affannato e roco come dopo una lunga corsa?
Un
soffio di brezza gelida mi fece venire la pelle d’oca su tutto il corpo. Nelle
ombre che mi circondavano distinsi il chiarore della finestra aperta, la tenda
che volteggiava nell’oscurità.
Ero
certa di averla chiusa.
Questa
volta lui mi prese dal basso. Sentii le sue mani di ghiaccio afferrarmi le
caviglie e aprirmi le gambe, mentre la bocca risaliva su per l’interno coscia,
sempre più su fino a tuffarsi dentro di me.
Nello
stesso istante qualcuno mi afferrò le mani.
Emisi
un gemito strozzato, sopraffatta dal terrore.
«Non
aver paura. Stanotte sarà anche meglio dell’altra.» La sua voce.
Non
riuscivo a capire da dove venisse.
Per un
attimo mi sembrò sussurrata nell’orecchio, ma subito dopo si fece
incredibilmente lontana, come se lui si trovasse a parecchi metri di distanza
da me. Istintivamente, come obbedendo a un ordine naturale, tutti i muscoli del
mio corpo si rilassarono e lasciai che loro mi prendessero, riempiendo di sé
ogni pezzo del mio corpo.
Sul far
dell’alba le contrazione di piacere si trasformarono in fitte dolorose che mi
strappavano lamenti prolungati, e dopo l’ultimo orgasmo caddi in un sonno
oscuro e senza sogni, completamente sola in un letto sfatto.
***
Riemersi
solo dopo molte ore.
Dalla
luce che filtrava dalle persiane abbassate capii che era pomeriggio inoltrato,
ma subito ripiombai in uno stato di semi-incoscienza, pensando confusamente che
avevo più sonno di quanto ne avessi mai avuto in vita mia.
I colpi
alla porta penetrarono come un martello pneumatico nella mia coscienza
narcotizzata. Perché diavolo non la smettevano? Volevo urlare loro di andar
via, ma qualcosa mi diceva che non l’avrebbero fatto.
Non so
come, raggiunsi la porta e tirai con tutte le mie forze per aprirla.
Colsi
lo sguardo terrorizzato del portiere ancor prima che questi avesse il tempo di
ricomporre il volto in un’espressione di affettata cortesia. Allora capii.
Senza
ascoltarlo corsi allo specchio.
Mi
osservai con crescente orrore prima di afferrare l’oggetto più vicino, un
pesante soprammobile di vetro, e scagliarlo contro la superficie malefica che
si prendeva gioco di me… Non potevo essere io quella vecchia riflessa nello
specchio!
Il
vetro si ruppe in mille pezzi che crollarono a terra come una tintinnante
cascata.
Sentivo
in sottofondo il blaterare spaventato dell’uomo, ma mi era completamente
indifferente. Afferrai un frammento di specchio e me lo portai al viso,
incurante del sangue che mi colava tra le dita. Era un vetro tagliente, a forma
di triangolo, e mi stupii di come riuscissi a stringerlo senza sentire alcun
dolore.
I miei
occhi mi fissavano sul volto di un’estranea, una donna di mezza età col viso
segnato e i capelli striati di bianco, l’espressione folle, gli occhi gonfi
contornati di ombre violacee. In un lampo fui addosso al portiere, che proprio
in quel momento stava cercando di svignarsela alla chetichella. Non so chi mi
diede la forza di afferrarlo per la gola e puntargli il vetro appuntito in
direzione della giugulare.
Era
parecchio più basso di me, e sentivo la sua testa sudare sul mio seno.
«Chi
è?» gli sibilai nell’orecchio, sforzandomi di impedire alla mia voce di tremare.
«Chi ha affittato questa camera?»
Piagnucolò
che non ne sapeva nulla, che lui eseguiva gli ordini e basta. Sentivo il suo
cuore battere più veloce di quello di un coniglio, e assaporai con particolare
piacere il momento in cui gli infilai la punta del vetro sulla carne umida,
ripetendo pazientemente la domanda.
«È-è
m-madame Chev… Chevalier…» balbettò tra i singhiozzi. «Madame Chevalier, del
castello su in collina, il c-castello dei duchi Chevalier…»
«Mi
prendi in giro?»
Spinsi
ancora qualche millimetro, sudando freddo.
Non
avevo certo la stoffa dell’assassina, ma in quel momento mi sentivo pronta a
tutto. Osservai la mano che stringeva il vetro. Tra il rosso del sangue
riuscivo a intravedere il blu delle vene, le macchie brune di una pelle non più
giovane.
Cosa mi
aveva fatto quell’uomo?
Cosa
mai mi avevano fatto, per ridurmi così?
Mi
accorsi che il portiere mi tendeva un foglietto stropicciato.
«Ec-ecco…»
stava dicendo. «Se lei avesse chiesto qualcosa, mi hanno detto di darle questo…
Lì saprà tutto, è l’indirizzo di madame… Lei sa, lei sa tutto…»
Scoppiò
in singhiozzi convulsi e con una spinta lo allontanai da me, afferrando il
foglietto. Indossai stivali e cappotto e uscii come una furia dalla stanza,
lasciando l’uomo a piangere accasciato a terra, in una pozza di escrementi.
***
Arrivai
al castello che era già notte.
Non
avevo preso con me i soldi per un taxi, ma dubitavo che qualcuno mi avrebbe
lasciata salire in quelle condizioni. Una vecchia puttana sporca e ferita, ecco
cosa avrebbero pensato prima di sgommare via. Mi avvolsi stretta nel cappotto e
prima di bussare provai a spingere il portone. Era accostato e si aprì in
silenzio.
Dentro
era buio e polveroso, un’accozzaglia di mobili vecchi e massicci che avevano
urgente bisogno dell’intervento di un restauratore, rischiarata appena da una
fila di candele accese sotto un enorme ritratto di donna.
Lo
osservai attentamente, affascinata dalla sua imponenza. La pensante cornice
dorata racchiudeva una dama ormai in avanti con gli anni, i lunghi capelli bianchi
raccolti in una candida crocchia e il volto serafico segnato da profonde rughe,
che nonostante l’età ispirava ancora l’immagine di quella che un tempo doveva
essere stata una straordinaria bellezza.
Tra i
chiaroscuri del ritratto spiccava il verde smeraldo dei suoi occhi, così
sfavillanti e audaci da sembrare vivi.
«Buonasera.
Vedo che non ci ha messo molto a trovarmi» disse una voce melodiosa alle mie
spalle.
La
riconobbi subito. L’avvocato.
Mi voltai
lentamente, incapace di replicare.
La
donna del ritratto mi fissava con un sorriso appena accennato. Gli occhi di
smeraldo brillavano sul volto levigato, e i riccioli bruni danzavano attorno
all’ovale perfetto, dai lineamenti puri e delicati.
Era la
ragazza più bella che avessi mai visto.
Si
passò velocemente la lingua sulla bocca carnosa, rosso ciliegia.
«È ora
che mi faccia fare un altro ritratto, non trovi? Forse quello è un po’…
vecchio» disse dolcemente.
La sua
risata argentina riecheggiò malefica nelle stanze vuote del castello.
Se c’è un sentimento che non mi appartiene, questo è
l’invidia.
Raramente mi capita di invidiare qualcuno, più che altro
provo ammirazione.
Ammiro qualità come la bellezza e l’intelligenza, ammiro chi
si è fatto da solo, chi ha del talento e chi pur non avendone riesce a
raggiungere traguardi importanti, ammiro chi si dà da fare ogni santo giorno,
chi è onesto con se stesso e con gli altri e chi possiede dei valori ben
solidi. Spesso ammiro chi forse non dovrei ammirare, per il semplice fatto che
credo molto a quello che sento e molto poco a quello che vedo: a volte la
realtà di una persona comincia proprio dove finisce l’apparenza, e generalmente
si tratta delle persone più belle. O forse sono di parte, perché anch’io raramente appaio come
sono davvero. Non lo so. Quello che so è che io non invidio quasi nulla –
né soldi, né potere, né bellezza – tranne una cosa: la capacità di amare in
maniera superficiale, di voltare sempre pagina come niente fosse, di
innamorarsi venti volte in una vita, di lasciarsi andare come se fosse la cosa
più naturale del mondo, senza paura.
Ecco, nella prossima vita mi piacerebbe
essere una dalla cotta facile e dalla testa leggermente più vuota, una che
sente le emozioni meno in profondità, ma più spesso, una che sa accontentarsi,
che pensa più alle cose pratiche che agli ideali.
Una brutta persona? No, solo una persona meno complicata.
Poi però penso che io una persona così al mio fianco non la
vorrei mai.
Non si desidera ciò che è facile ottenere, e che valore può
avere mai, l’amore di chi ha avuto decine di amori, e altrettanti ne avrà dopo
di te? Che valore ha un sentimento elargito a casaccio, per suggestione,
convenienza o paura di star soli? I diamanti non sarebbero così preziosi, se si trovassero a
ogni angolo di strada. E l’amore non sarebbe un diamante, se venisse dato al primo
che passa.

Credo di non dire una novità per nessuno se affermo che la
vita è fatta di scelte.
Una catena di scelte, per la precisione, alcune
determinanti, altre meno.
L’angoscia con cui le prendiamo è proporzionale alla loro
importanza.
Quello che ho capito solo negli ultimi anni, però, è che a
volte i tempi non sono maturi per una scelta; voglio dire, ci sono scelte che
maturano col tempo, e affrettarle quando non è strettamente necessario può
rivelarsi poco saggio (oltre che controproducente).
I giovani peccano di avventatezza e forse io giovane non lo
sono più, perché finalmente ho imparato ad aspettare.
Ad aspettare di valutare bene l’intera situazione.
Ad aspettare di capire con chi ho davvero a che fare.
Ad aspettare che tempi e sentimenti siano maturi.
Ad aspettare di sentire dentro quella nuova consapevolezza
che modifica gli equilibri.
D’altra parte, però, chi rimanda troppo una scelta
importante – che sia di cuore o di testa – può rischiare davvero grosso:
opportunità perse, vite sospese che finiscono con l’assestarsi in una
malinconica e tormentata indecisione, insicurezze e ossessioni.
Come trovare il giusto equilibro?
Premetto che non sono una veggente né pretendo di avere in
mano la verità universale, ma nel mio piccolo io ho capito che devo darmi
tempo, ma anche darmi un tempo. Una scadenza.
Tempo perché il mondo cambi fuori e dentro di me, ma anche
tempo per non sprecare altro tempo. Me ne concederò fino a luglio.
Poi, volente o nolente, farò una scelta su una questione che
mi sta molto a cuore.
È la mia piccola grande
promessa per questo 2014.
 |
by Fabian Perèz |
Seppe
di aver toccato il fondale ancor prima che la sabbia si insinuasse tra le
lische della coda. Annaspò
alla ricerca d’acqua, mentre l’aria limpida e fredda le graffiava la gola. Era
solo questione di tempo prima che il suo corpo si abituasse all’aria e le
branchie si schiudessero per permettere ai polmoni di funzionare correttamente.
Un processo doloroso, ma inevitabile. Guardò
dietro di sé sua sorella Ananke che volteggiava ignara del pericolo.
Avrebbe
voluto urlarle di allontanarsi più in fretta che poteva, di tornare al largo,
dove l’oceano scavava profondità inaccessibili alle creature della terra, ma
non ne ebbe il tempo. Un laccio di ferro le si conficcò nel derma coperto di
lische, intaccando la struttura interna della coda. Urlò
di dolore, piegandosi in due nella trappola trasparente e letale. Qualche
metro più in là, Ananke si dibatteva disperatamente in un’altra rete. Un’acuta
stilettata di colpa le trafisse il cuore. Avevano sbagliato ad avvicinarsi alla
costa… lei, che era la maggiore, avrebbe dovuto tenere a freno l’imprudenza di
Ananke. All’improvviso
sentì le loro grida. Uomini, tanti uomini.
Come tutte le creature del mare,
Surya conosceva la loro lingua, sapeva che quei versi disarticolati indicavano
soddisfazione, vittoria.
Si
guardò intorno, terrorizzata. Solo allora si accorse che quel tratto di mare
era interamente ricoperto di reti invisibili, messe lì apposta per loro…
Amerigo
era solo nel salone delle feste. Aveva mandato via i servitori e gli uomini
incaricati di tinteggiare le pareti per la cerimonia d’investitura del nuovo
sovrano, che si sarebbe tenuta di lì a qualche giorno, al ritorno di Rolando.
Le labbra dell’uomo si incresparono in una smorfia. Rolando, l’erede al trono che suo padre aveva indicato come
successore sul letto di morte. Scavalcando ogni buonsenso e ogni tradizione, il
vecchio aveva scelto il figlio minore, che a sedici anni si era arruolato
nell’esercito per tornare in patria solo una volta l’anno.
Un
soldato su trono di Cornovia, il più esteso e prospero di Occidente!
La
smorfia di Amerigo si appianò nella maschera di gelo che indossava quando era
infuriato. Le
spie che aveva messo sulle tracce di suo fratello gli avevano riferito che
sarebbe sbarcato in patria il ventidue giugno. I suoi uomini migliori
l’avrebbero atteso lì, schierati in forze e armati fino i denti. Rolando non
avrebbe mai immaginato quale calorosa accoglienza lo aspettava nella sua terra
natale, dove credeva di mettere piede come futuro sovrano. Le labbra sottili
dell’uomo si arcuarono in un sorriso che ricordava quello di un pescecane.
In
quel momento entrò un servitore, un ragazzino alto e magro, piuttosto scialbo.
«Sire»
esclamò, inchinandosi con deferenza. «Sta arrivando!»
Quando
due soldati entrarono tenendola per le braccia, uno a destra l’altro a
sinistra, Amerigo fece qualche passo in avanti per vederla meglio. Gli uomini
avanzavano piano, facendo ticchettare ritmicamente gli stivali sul marmo
lucido, mentre il sacco informe che trascinavano, una specie di bozzolo avvolto
in un telo di iuta, assumeva via via le sembianze di una donna.
Una
donna dal volto bellissimo. Aveva già visto l’altra sirena: era più piccola di
questa, poco più che una bambina. Farla parlare era stato facile. Aveva detto
di chiamarsi Ananka, e sempre da lei avevano appreso che l’altra, quella che
ora lo fissava dritto negli occhi con uno sguardo di sfida, era sua sorella
Surya. Nessuno osava incrociare apertamente lo sguardo di Amerigo, né i suoi
consiglieri, né i soldati della guardia. Eppure lo sguardo ardito che gli
lanciava quella ragazza, lungi dall’irritarlo, gli procurava un curioso
rimescolio nello stomaco. Forse…
«Lasciatela»
ordinò ai soldati. Quelli non se lo fecero ripetere due volte: mollarono la
presa, e la sirena finì miseramente a terra. Se si aspettava di sentirla
lamentarsi per il dolore, Amerigo fu deluso. Lei non emise un sibilo,
limitandosi ad alzare il volto per tornare a guardarlo.
Nei
suoi occhi neri, ora così vicini, si leggeva chiaramente tutta la rabbia, l’impotenza
che doveva provare. Enormi e sproporzionatamente grandi su quel volto minuto,
quegli occhi lo accusavano apertamente, silenziosi e immobili come laghi di
petrolio. Sembrava un animaletto in gabbia. Inoffensivo, ridicolmente fiero.
Amerigo ricambiò lo sguardo con un sorriso condiscendente.
Un
nuovo piano stava prendendo forma nella sua mente.
«Spogliatela»
ordinò, senza staccarle lo sguardo di dosso.
I
soldati la strattonarono brutalmente per srotolare il telo ruvido che la
ricopriva.
Amerigo
non riuscì a trattenere un fischio di ammirazione mentre istintivamente si
portava una mano al volto, per riparare gli occhi da quel luccichio così simile
ai raggi del sole.
Non
aveva mai visto una sirena dal vivo, ma aveva ascoltato attentamente i racconti
dei pescatori che si erano imbattuti in una di quelle creature metà uomo metà
pesce. Ma nulla di quello che aveva sentito l’aveva preparato a ciò che si
trovava sotto i suoi occhi.
A
sessant’anni suonati, per la prima volta si sentiva come un bambino di fronte a
qualcosa che nessuno gli aveva mai mostrato. Ai suoi piedi, la coda luccicante
della sirena si dibatteva freneticamente scivolando sul marmo, quasi fosse
dotata di vita propria. Rimase incantato a guardarla. Era verde, un verde
intenso e sconosciuto all’universo terrestre, che virava verso l’oro, spandendo
intorno a sé stilettate di luce ambrata, fredda come pietra grezza. Il suo
sguardo non poté fissarla per più di qualche secondo, gli dolevano gli occhi.
A
un suo cenno, uno dei soldati si affrettò a coprire la coda con la iuta.
«I
pescatori hanno detto che col passare dei giorni sarà sempre meno luminosa,
come un fuoco che smette di ardere» gli spiegò.
Gli
occhi di Amerigo tornarono a posarsi sulla sirena, questa volta per ammirare le
sue meravigliose forme umane. Il suo sguardo insistente si spostò dal ventre
piatto, perfettamente disegnato, ai seni chiari e sodi, fino al collo lungo e
sottile, che ricordava quello di un cigno.
Il
viso era un ovale perfetto dagli zigomi alti, gli occhi immensi e una bocca di
un intenso color carminio che sembrava dipinto, su cui i capelli cascavano come
un velo di scintillante seta nera.
Gli
occhi bruciavano come carboni ardenti, accusatori. Le rivolse un sorriso
sarcastico, mentre si chinava per sfiorarle i seni. Si aspettava una reazione
forte. La creatura sussultò leggermente, ma non disse nulla. Solo quando il suo
tocco si fece più invadente voltò il capo.
Era
fiera come una cavalla di razza, pensò Amerigo, ma non c’era niente e nessuno
che lui non riuscisse a piegare alla sua volontà.
«Tua
sorella ci ha detto che ti chiami Surya» disse.
Alla
parola sorella notò un moto involontario del capo e capì di essere sulla strada
giusta.
«Voglio
proporti un patto» esordì, conciliante. Un nuovo piano aveva preso forma nella
sua mente. «Tua sorella è tanto carina…»
«Lasciala
stare!» sibilò la sirena, fissandolo con odio.
Amerigo
sorrise tra sé. Sarebbe stato più facile del previsto.
«Dunque
sai parlare» commentò, alzando un sopracciglio. «A tua sorella non succederà nulla,
a patto che tu faccia qualcosa per me»
«Non
farò niente per te, vecchio!» Nella sua voce anche l’odio aveva le frequenze di
una musica. Alta, vibrante e cristallina come acqua.
«Come
vuoi.» Alzò le spalle con noncuranza. Poi, rivolto a un servo: «Portatela via.
E trascinate qui davanti la piccolina!»
«Aspetta!»
gridò la sirena.
«Cosa
devo aspettare?»
«Lascia
andare mia sorella. In cambio farò tutto ciò che chiedi.»
Amerigo
sorrise. Ancora una volta era stato tutto fin troppo facile. Per quello che aveva
in mente, una sirena soltanto era più che sufficiente… l’altra sarebbe servita a
facilitargli il compito.
Rolando
si sporse dal finestrino della carrozza per guardare le nubi oscure addensarsi
sull’oceano.
Da
buon uomo di mare sapeva cosa significasse per le navi una tempesta di quelle
dimensioni, eppure in quel momento gli mancava non trovarsi a bordo. La sua
vera vita era l’acqua, la vastità dell’oceano che carezzava la terra e si
ritraeva al ritmo delle maree, proteggendo la vita dei fondali come farebbe una
madre amorosa.
Tirò
le tendine e tornò a fissare il sedile vuoto di fronte a sé con aria cupa.
Amerigo
non era venuto a prenderlo, troppo occupato con questioni di governo. Non che
gli dispiacesse; anzi, quando i soldati incaricati di condurlo a palazzo gli
avevano comunicato che l’avrebbe visto soltanto la sera, al ballo organizzato
in suo onore, si era quasi sentito sollevato.
Non
erano mai andati d’accordo, tra loro c’era troppa differenza d’età e di vedute,
ma aveva dovuto abituarsi all’idea che un giorno sarebbero stati costretti a
lavorare fianco a fianco.
Avrebbe
preferito che suo padre non gli avesse lasciato quell’incombenza. Per come la
vedeva lui, era Amerigo quello più adatto a regnare. Lui era fatto di un’altra
pasta: amava l’avventura, il pericolo, amava viaggiare e sapere che ogni giorno
a bordo poteva essere l’ultimo… Solo così gli sembrava che la vita acquistasse
un senso. Ma non poteva sottrarsi ai suoi doveri. Era l’onore a impedirglielo,
e lui, prima di ogni altra cosa, era un uomo d’onore. Un figlio leale.
Sfiorò
con un dito l’armatura che gli ricopriva il petto, che non toglieva nemmeno di
notte.
Gliel’aveva
regalata il suo anziano padre quando, poco più che ragazzino, si era imbarcato
per la prima volta, ma solo anni dopo aveva compreso fino in fondo il valore di
quel dono.
Donandogli
quell’armatura leggera e sottile, quasi impalpabile, suo padre aveva voluto
proteggerlo. Sottile come la lama di una spada, dura come sfoglia di diamante,
l’armatura non solo l’aveva più volte sottratto alla morte, ma dopo vent’anni
non riportava neanche la più piccola ammaccatura. Una volta una vecchia maga
tailandese si era inchinata al suo cospetto, sussurrando: «Guerriero, che gli
Dei ti benedicano! Questa armatura è forgiata con le pietre dello Stige,
smaltata d’oro da Ares in persona, dio della guerra!».
Ogni
volta che ripensava a quelle parole, Rolando non riusciva a trattenere un moto
di commozione nei confronti di quel padre che gli aveva fatto il dono più
prezioso del mondo, l’invincibilità: finché avesse indossato l’armatura,
Rolando sapeva che niente avrebbe potuto ucciderlo.
Surya
guardava le ancelle che si affaccendavano intorno a lei con un misto di terrore
e curiosità.
In
un certo senso si sentiva attratta da quelle donne bellissime, fasciate di
seta, che volteggiavano per la stanza sistemando fiori negli enormi vasi
d’argento, accendendo candele e curando ogni dettaglio affinché tutto fosse
perfetto per la scena che lei avrebbe
dovuto recitare.
Il
pensiero le provocò una stretta allo stomaco.
Se
la situazione fosse stata diversa, si sarebbe senz’altro goduta quello
spettacolo stupefacente.
Nel
regno marino non esisteva nulla di neanche vagamente paragonabile al fuoco che
scoppiettava nel camino, spandendo intorno a sé una luce ambrata la cui
semplice vicinanza infondeva calore e un piacevole senso di abbandono. Pensò
alla sua coda, che sotto le coperte diventava sempre più spenta e opaca. Sì, in
un’altra occasione si sarebbe decisamente goduta quel soggiorno tra le
misteriose creature che abitavano la terra… In fondo non era forse questo che
cercavano, lei e sua sorella, quando si erano avvicinate alla riva? Uno sguardo
al mondo emerso, alle meraviglie che quelle strane, incomprensibili creature
riuscivano a creare.
Scostò
le coperte per guardare meglio la coda. Ora la sua luce vibrava verso il
bronzo.
Mai,
dacché era nata, aveva visto una coda così scura, se non forse nelle sirene
ultracentenarie, ormai prossime alla morte. Quella parola le provocò un
sussulto. Era questione di pochi giorni e la sua coda sarebbe avvizzita, la
luce si sarebbe fatta sempre più oscura, attraversando tutte le gradazioni del
verde fino a spegnersi per sempre. Dopo ci sarebbero voluti al massimo un paio
di giorni prima che morisse anche la sua metà umana.
Un’ancella
si affrettò verso di lei con un’espressione imbronciata sul bel viso rotondo.
Era
giovanissima, doveva avere l’età di Ananke. Solo il pensiero che sua sorella
presto sarebbe stata salva era in grado di sostenerla, impedendole di cedere al
dolore che le squarciava il petto.
«Copriti!»
la rimbrottò la ragazzina. «Il padrone potrebbe entrare da un momento all’altro
e non deve vedere la coda!»
Surya
obbedì senza replicare, tirando su le lenzuola di seta fino a coprire anche il
seno.
Aveva
notato come la guardavano gli uomini, e quegli sguardi non le piacevano… si
sentiva esposta, oggetto di brame incomprensibili che non promettevano nulla di
buono.
Ignorando
gli sguardi insistenti e curiosi delle donne che le trafficavano intorno, si
sistemò meglio sui cuscini di morbida e fresca seta e chiuse gli occhi. Sentì
confusamente che qualcuno le spazzolava i capelli e che le mettevano della
polvere sul viso, facendola quasi starnutire.
Quando
si sarebbero decise a lasciarla in pace? Ripensò alle parole di sua madre, che
l’aveva sempre messa in guardia dall’eccessiva curiosità.
«Un
giorno potrebbe portarti guai!» le ripeteva da bambina, carezzandole il capo
con le dita affusolate. Aveva ragione.
E
pensare che le sarebbe bastato aspettare! Mancavano solo pochi giorni al
ventiquattro di giugno, la notte di mezza estate in cui a tutte le creature
ibride che animavano il mondo – sirene, licantropi, unicorni – era concesso di
transitare liberamente da uno stato all’altro.
Quella
notte avrebbe potuto assumere le sembianze di una donna e osservare la terra
emersa fino al calar del sole, senza aver paura di essere scoperta. Ma aveva
avuto fretta, e l’aveva pagata cara.
Non
si accorse di essere scivolata nel sonno finché il cigolio della porta che si
apriva non la fece sobbalzare. Allora si rese conto che delle ancelle non c’era
più traccia: era sola, nella stanza, sola a eccezione dell’uomo che stava
entrando in quel momento…
Nell’aprire
la porta, Rolando quasi cadde in avanti. Era più leggera di quanto si fosse
aspettato, oppure ci aveva messo troppa forza… entrambe ipotesi probabili,
visto che quella sera aveva alzato il gomito. Non era da lui bere troppo,
soprattutto durante la navigazione, ma, come aveva detto suo fratello, sulla
terraferma le regole erano diverse.
Quella
era la sua serata, ogni cosa era stata organizzata in suo onore, compresa la
prostituta più bella del regno che lo attendeva paziente in una stanza nell’ala
Nord del palazzo.
Da
sobrio aveva subito scartato quell’idea. Non gli erano mai piaciute le
prostitute, l’idea di ricorrere ai loro servigi lo disgustava. Preferiva
l’amore semplice e pulito delle serve o delle dame di compagnia, giovani donne
che provavano per lui una sincera tenerezza che lo spingeva a proteggerle. E
poi, nel profondo del cuore, sapeva di desiderare un amore appassionato come
quello dei suoi genitori.
Figlio
del re e di una dama di palazzo morta di parto, Rolando aveva evinto l’immenso
amore del padre da come questi l’aveva accolto in seno alla propria famiglia,
regalandogli lo status di figlio legittimo e il suo regno. Da piccolo gli
parlava spesso della madre, e ascoltando le sue parole Rolando si era convinto
che l’amore esistesse davvero.
Tuttavia
Amerigo si era categoricamente rifiutato di far portare via la ragazza.
Sarebbe
stata una vera scortesia, aveva detto, ammiccando tra i fumi del vino. La
signora andava soddisfatta, e se proprio lui non era disponibile… beh, poteva
almeno andare a congedarla di persona, spedendola nelle camere dell’equipaggio
che sicuramente avrebbe apprezzato.
E
quindi eccolo lì, sulla soglia della camera occupata da una sconosciuta.
Entrando,
la penombra lo avvolse come un caldo mantello di velluto. La vista offuscata
gli restituiva moltiplicata la luce tenue delle candele che illuminavano la
stanza, conferendo all’ambiente l’atmosfera irreale di un sogno. Le fiamme che
ardevano nel camino coloravano di porpora l’aria densa d’incenso, arrossandogli
il viso. Il rossore aumentò a dismisura quando mise a fuoco la donna che
giaceva sul letto matrimoniale a baldacchino al centro della stanza.
Si
avvicinò di qualche passo, desiderando vederla meglio. Il caldo e l’alcol
giocavano brutti scherzi… Possibile che al mondo esistesse una fanciulla così
bella?
La
osservò a lungo, immobile. Tanta bellezza lo intimoriva, sembrandogli quasi
sovrannaturale.
Volti
così incantevoli li aveva visti solo sui libri di fiabe che la governante gli
leggeva da bambino o sulle bambole di porcellana che comprava alle figlie delle
sue amanti occasionali.
La
pelle di porcellana delineava un ovale perfetto, ombrato da lunghe ciglia scure
e acceso dal rosso carminio delle labbra. I capelli neri, lunghissimi, erano
sparsi sul cuscino immacolato, le labbra appena schiuse di chi attende
qualcosa.
Qualcosa
però gli suggeriva che la ragazza non stesse realmente dormendo.
I
suoi tratti non avevano l’abbandono tipico del sonno, apparivano tesi, il
respiro spezzato di chi attende e ha timore. Si sedette piano sulla sponda del
letto, avvicinando impercettibilmente il volto a quello di lei. Quando la
fanciulla spalancò gli occhi, per un istante fu come abbagliato dal suo
sguardo. Gli occhi neri, impastati di sonno, erano due laghi dalle acque color
cannella, profondi e vigili.
La
scintilla combattiva che li increspava lo fece sobbalzare.
«Non
ti farò del male» si sentì dire.
Lei
non aveva detto nulla, ma gli era sembrato che il suo volto esprimesse una muta
richiesta di rassicurazione. La ragazza si rilassò impercettibilmente. Senza
parlare, si sistemò meglio sul cuscino, facendo scivolare il velo di seta che
le copriva il seno. Un capezzolo sgusciò fuori, rotondo e perfetto, di un rosa
intenso, e Rolando sentì la saliva andargli di traverso in gola.
La
giovane si occorse del suo turbamento, seguì la traiettoria del suo sguardo e
poi tornò a fissarlo negli occhi, incuriosita. Non sembrava affatto
imbarazzata, come se esporre la sua nudità fosse qualcosa di estremamente
naturale. Poi fece un gesto che lui non si sarebbe mai aspettato da una
cortigiana: sollevò un braccio candido e con la mano gli sfiorò il volto,
carezzando la barba di un paio di giorni.
Quel
contatto sprigionò una sorta di elettricità tra loro.
Era
un gesto incerto, le dita di lei
tremavano a contatto con la sua pelle.
Senza
pensarci su due volte, le afferrò la mano e se la portò al cuore. Gli sembrava
di sentirne il tocco anche sotto i vestiti e l’armatura.
«Come
ti chiami?» chiese. Anelava a sentirla parlare, non riusciva a immaginare che
voce potesse avere una bellezza del genere.
«Surya»
rispose lei. Una voce dolce come il mormorio della risacca.
«Surya»
ripeté, perdendosi nell’abbagliante candore del suo corpo nudo, desiderando
ardentemente scostare le lenzuola per vederla tutta. Denudarle l’ombelico e i
fianchi ondulati per poi infilarsi tra le gambe appena schiuse e assaporare
fino in fondo l’aroma di donna, il suo particolare profumo. Aveva dimenticato
ogni cosa: che lei era una prostituta pagata da suo fratello, che a malapena
conosceva il suo nome, che era pericoloso perdersi in quel modo negli occhi di
una perfetta sconosciuta… il desiderio di baciarla era così intenso da farlo
tremare.
L’attirò
dolcemente a sé, cingendole il collo con una mano, e posò le labbra su quelle
di lei.
Era
l’uomo più bello che avesse mai visto.
Non
ne aveva visti molti, in realtà, ma trovava che si somigliassero tutti quanti.
Tranne lui.
Lui
era grande, alto, leggermente robusto, i capelli biondi e scarmigliati gli
sfioravano le spalle larghe. Gli occhi erano bruni, la bocca carnosa: tutto in
quell’uomo le suggeriva che era buono, persino il suo profumo, aspro e
alcolico, rassicurante. Non sapeva cosa le fosse passato per la testa, non
l’aveva preventivato, ma a un certo punto aveva sentito il bisogno quasi fisico
di toccarlo. A contatto con pelle ruvida del volto, increspata di barba, il suo
cuore si era stretto violentemente.
Una
morsa che faceva male, una sensazione mai provata prima di allora.
Desiderio
e paura mischiati al punto da trasformarsi in qualcos’altro, un impulso cieco
che l’aveva spinta a premere forte le labbra contro quelle dure e screpolate
che lui aveva poggiato sulle sue.
Quando
sentì che l’uomo forzava per entrare, schiuse le labbra e lo accolse.
Fu
come se il mondo esplodesse intorno a loro. Nulla era esistito prima di quel
bacio.
Se
quello era l’amore, oh, era di gran lunga superiore a ogni sua aspettativa!
Niente
di ciò che sapeva in merito l’aveva preparato a quello…
La
mano maschile scese ad accarezzarle il seno, lasciando una scia bruciante su
ogni centimetro di pelle che sfiorava. Nel frattempo l’uomo continuava a
baciarla, carezzandole il viso con l’altra mano, avvicinandosi sempre più.
Ancora qualche centimetro e le sarebbe stato addosso.
Fu
allora che rinsavì, come se qualcuno all’improvviso le avesse urlato di
muoversi.
Lei
non era lì per quello. Lei non era lì per lui, né per se stessa: era per sua
sorella che aveva accettato, era per lei doveva portare a termine quella
missione. Si staccò bruscamente, scostando la mano che le accarezzava il seno.
L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso.
Non
avrebbe voluto guardarlo, non mentre faceva quello che stava per fare.
«Cosa…»
mormorò lui, sorpreso.
Sentiva
la bocca incredibilmente secca, parlare le costava fatica.
«È
che… voglio sentirti» balbettò, cercando di evitare il suo sguardo. «Voglio
abbracciarti»
Lui
capì subito e obbedì con un sorriso. Non si era mai sentita così male, così
infelice come mentre lo guardava togliersi l’armatura lucente per rimanere a
torso nudo.
Allora
iniziò a cantare. Era il segnale concordato.
L’espressione
dell’uomo tornò a farsi sorpresa, per poi diventare furibonda quando le guardie
reali irruppero nella stanza, avventandosi su di lui. Si ritrasse, spaventata,
mentre Rolando lottava come una furia, la corazza d’oro che scintillava sul
pavimento, ormai inutile.
Mentre
lo portavano via, le lanciò uno sguardo rabbioso che subito si tramutò in
stupore.
Nel
trambusto, le lenzuola le erano scivolate di dosso, scoprendo la coda.
«L’ho
fatto per mia sorella! Perdonami, se puoi!» urlò Surya, prima di scoppiare a
piangere disperatamente.
Erano
passati due giorni dacché Rolando era stato rinchiuso nelle segrete del
castello.
L’avrebbe
tenuto in vita il tempo necessario a carpirgli i segreti di guerra, poi sarebbe
morto.
Era
il ventiquattro di giugno, la notte in cui alle creature ibride era concesso
mutar forma.
Nella
stessa notte, agli umani era concesso di accedere a un potere infinito ed
eterno, un potere che andava ben oltre le umane possibilità.
Messo
fuori gioco Rolando, Amerigo era diventato il signore incontrastato della
terra. Il suo regno si estendeva in ogni direzione e ogni anno inglobava nuove
terre, nuove genti. Ma non gli bastava.
Lui
bramava a essere anche il signore del cielo e del mare, e per far questo era
necessario un duplice sacrificio: un’aquila, signora del cielo, e una sirena,
dea del mare, da immolare all’altare del monte Kinabalu, sospeso tra cielo e
terra, a picco sul mare.
Una
superba aquila reale era già stata trasporta sul posto, mancava solo la sirena,
e tra poche ore avrebbe avuto luogo il sacrificio che avrebbe messo il mondo ai
suoi piedi.
Sorrise
tra sé quando bussarono alla porta, ma il sorriso gli morì in gola vedendo
l’espressione terrorizzata del giovane paggio.
«Dov’è
lei?» chiese, brusco.
«Non
è più nella sua stanza, sire… Qualcuno l’ha aiutata a fuggire!»
Di
tanto in tanto la luna faceva capolino tra le nubi, quasi volesse indicar loro
il sentiero più breve per raggiungere l’oceano. Poi tornava a nascondersi,
lasciando che le ombre violacee della notte inghiottissero la terra. In sella a
un cavallo rubato, Rolando procedeva a passo d’uomo.
Era
consapevole del pericolo cui li esponeva quell’andatura troppo lenta, ma non
voleva correre il rischio di svegliarla. Era così bella, accarezzata solo dalla
luce flebile e bronzea della coda.
Ormai
aveva smesso quasi completamente di brillare. Sapeva cosa voleva dire, Surya
glielo aveva spiegato quando era corso a liberarla, forte di un’armatura che
aveva perso solo per poche ore.
Quello
stolto di suo fratello non sapeva che allo scoccare delle ventiquattro ore,
l’armatura sarebbe tornata al suo legittimo proprietario.
Quando
l’aveva riavuta con sé, nulla più era stato in grado di fermarlo.“La corazza è
solo un oggetto” gli aveva detto il padre, prima di morire. “La sua vera forza
è dentro di te… Se desideri ardentemente qualcosa, prima che cali il sole
tornerà a esser tua, e ti aiuterà.”
Lui
desiderava liberare la donna che aveva aiutato suo fratello a distruggerlo.
Era
chiusa poche celle più in là, l’aveva riconosciuta dal canto straziante. Grande
era stata la meraviglia quando aveva scoperto la sua vera natura: come molti
uomini di mare, sapeva dell’esistenza delle sirene, ma non ne aveva mai vista
una. L’aveva liberata perché non ce l’aveva con lei. La sua prigionia
dimostrava che non aveva avuto scelta, e lui non poteva dimenticare il bacio
che si erano scambiati, le labbra che gli trasmettevano un calore in grado di
farlo fremere da capo a piedi.
Erano
in viaggio da ore. Quando, in lontananza, udì il rumore delle onde che
s’infrangevano a riva, istintivamente chinò gli occhi sulla sirena che teneva
tra le braccia.
Fu
sorpreso nell’incrociare il suo sguardo brillante, acceso di speranza.
«Acqua…»
mormorò Surya. Ne sentiva il richiamo, così forte che le membra le dolevano.
Riusciva
solo ad abbandonarsi tra le braccia di quell’uomo. Irrazionalmente,
stupidamente, si fidava di lui. Avrebbe scelto di fidarsi di lui anche se
avesse avuto un’altra scelta.
«Ci
siamo» disse Rolando. La sua voce vibrava di sollievo.
Allora
Surya alzò gli occhi e vide l’oceano. Liscio come velluto, infinito, si
stagliava fiero contro un cielo di stelle che si specchiavano in lui. Lacrime
inconsapevoli le rigarono le guance.
L’oceano…
la sua casa, la vita! Senza parlare, Rolando scese da cavallo, la prese in
braccio e camminò fino a che l’acqua non gli arrivò alla vita, immergendo la
coda di Surya centimetro dopo centimetro.
La
sentì fremere e artigliarli la pelle nuda delle braccia con le dita sottili.
«Fa
male?» chiese, incerto.
Il
volto di Surya si aprì in un sorriso dolcissimo in grado di spezzargli il
cuore.
Illuminato
da quegli occhi di carbone, si sentiva fragile e inerme come un bambino.
«Brucia
un po’… ma solo all’inizio.»
Allora
avvenne il miracolo. La coda iniziò a pulsare di luce propria, un intenso
bagliore d’oro e ambra che spandeva attorno a sé un arcobaleno di scintille
colorate. Le sue braccia si aprirono per lasciar andare la sirena. La coda si
dibatteva con furia e grazia, disegnando cerchi e figure che lasciavano
nell’acqua un’impronta profonda, come se l’oceano fosse restio a cancellare il
saluto della figlia ritrovata. Accompagnata da centinaia di stelle fiammanti,
Surya nuotò lontano da lui, mentre all’orizzonte il cielo veniva squarciato da
un’esplosione di fuoco e luce che offuscò anche la luna. All’improvviso ebbe
paura. E se l’avesse persa per sempre?
Poi
ci fu un attimo di buio assoluto: né scintille, né stelle, né luna ornarono più
con il loro riflesso la superficie nera dell’oceano. Era mezzanotte in punto.
L’acqua
davanti a lui si increspò, sollevandosi, e Rolando balzò indietro, spaventato.
Lentamente,
centimetro dopo centimetro, il corpo di Surya emerse dal mare.
Nel
buio sempre meno denso distinse chiaramente le forme dei suoi seni, i fianchi
pieni e ondulati, e poi… Si avvicinò per vedere meglio, incredulo. Gli occhi
gli stavano giocando un brutto scherzo, non c’era altra spiegazione! Il timido
sorriso della donna che amava brillò nell’oscurità, mentre lei si portava una
mano al bassoventre. In quel momento il mare si ritirò scoprendo due gambe
esili e incerte, che tremavano leggermente.
«Ma
tu… tu sei…» balbettò.
«Solo
per stanotte» rispose lei, traballando e finendogli addosso.
«Non
so come reggermi in piedi» si scusò, alzando lo sguardo.
Ma
lui non capiva già più niente. Mentre il corpo nudo di Surya premeva contro il
suo, il desiderio lo invase, prepotente. Voleva quella donna e la voleva lì, in
un momento che non sarebbe tornato.
Si
chinò per baciarla a lungo mentre con una mano frugava dolcemente il miracolo
tra le sue gambe, caldo, umido e profondo. Surya rispose al bacio con passione,
staccandosi dalle sue labbra solo il tempo di un “ti amo” sussurrato a pelle,
pieno di calore, odoroso di mare e primavera.
L’uomo
rispose cingendosi i fianchi con le gambe sottili di lei e penetrandola senza
fretta, con forza, sentendola gemere nella sua bocca. Non si chiedeva cosa ne
sarebbe stato di loro al sorgere del sole, quando l’incantesimo si sarebbe
spezzato.
Sapeva
solo che lì, tra il canto delle onde e il respiro del vento, un uomo e una
donna si stavano donando tutto se stessi, come se passato e il futuro non
esistessero, come se la loro esistenza finisse nell’oceano, in una notte di
mezza estate…
"Quando
avevo vent'anni, mia madre si innamorò per la tredicesima volta. Lui si
chiamava Salvatore, aveva trentanove anni, era avvocato e lavorava presso uno
degli studi associati più rinomati della nostra città. Questo era quanto sapevo
di quell'uomo prima che venisse a vivere da noi, e per quanto mi riguardava era
anche troppo.
Non ho mai apprezzato i gusti di mia madre, che in fatto di
uomini risultavano quasi imbarazzanti per la loro ordinarietà. Scelte perfette
di uomini perfetti: mascella squadrata, bicipite scolpito, bocca carnosa e
portafoglio gonfio per completare la sua vita perfetta.
Dove
li trovasse, non l'ho mai capito.
Non che mia madre fosse da meno, comunque.
Tutti
i maschi della scuola, professori e bidelli inclusi – e, sospetto, anche il
preside – le sbavavano dietro quando ancheggiava lungo i corridoi del liceo
dove insegnava italiano, che per colmo di sfortuna era stato anche il mio
liceo. Alta, bionda e formosissima, catturava tutti gli sguardi vogliosi
maschili che io, adolescente acerba e piatta come poche, non riuscivo ad
attirare per più di qualche secondo.
E per riuscirci dovevo usare tonnellate di
trucco e mini raso-passera, che, ora me ne rendo conto, dovevano ispirare più
tenerezza che sesso. Il sesso.
Anche in questo mia madre dimostrava di essere
una donna spaventosamente banale. Cercava l'amore, lei, e per quanto ne sappia
non si è ancora arresa nemmeno adesso che ha sessant'anni e tre divorzi alle
spalle. La sua è sempre stata una ricerca ostinata e distruttiva, soprattutto
per chi le stava accanto.
Lo sapeva bene mio padre, liquidato senza troppe
cerimonie il giorno in cui l'adorabile mogliettina aveva conosciuto più
intimamente il suo istruttore di nuoto, e lo sapevo bene anch'io, che di tanto
in tanto venivo svegliata in piena notte da mugolii simili ai versi di un
animale selvatico.
È questo che ricordo di lei, se ripenso alla mia
adolescenza: sguardi distratti, aspre critiche e notti insonni passate a covare
odio contro il cuscino salato, umido di lacrime.
Ero tutto fuorché una
ragazzina felice, ma mia madre non era da meno. Ogni volta qualcosa finiva per
andarle storto, e l'unica imperfezione della sua vita di ex moglie di un
facoltoso industriale restava l'incapacità di tenersi un uomo. Io ci godevo
spudoratamente, soprattutto quando erano loro a mollare lei.
Ricordo ancora
come bruciavano le sue mani morbide e curate sulle mie guance, quando da
piccola mi divertivo a rubarle i trucchi per impiastricciare poi con cura i cassetti
della sua biancheria o i gioielli.
Se era in un periodo di magra, di notti solitarie
e silenziose, perdeva la pazienza per un nonnulla, ingurgitava sonniferi e spesso
non riusciva a svegliarsi nemmeno per andare a scuola.
Allora si accaniva
contro mio padre perché non pagava puntualmente gli alimenti o perché, a suo
dire, se n'era andato fregandosene di noi, che rimanevamo pur sempre la sua
prima famiglia, eccetera eccetera. Mio padre si era fatto una nuova famiglia e
si era trasferito in Germania. Quando mi arrivò per posta la foto di mio
fratello – un angioletto biondo e paffuto stretto tra due amorevoli genitori – le diedi fuoco con l'accendino che mi
aveva regalato Carlo, il mio primo amore, in ricordo della nostra prima canna
insieme.
Ne erano seguite molte altre, e altrettante volte ci eravamo
incastrati selvaggiamente sui sedili posteriori della sua Ford Fiesta, ma lui continuava
a stare con la mia migliore amica, e io iniziavo a stufarmi. Tornando a mia
madre, nei periodi buoni, quando, a suo dire, “trovava finalmente l'amore vero”,
era una mamma esemplare: niente ritirata (era più comodo che rimanessi fuori
dalle scatole il più a lungo possibile), niente regole, schiaffi, rimproveri, e
gli alimenti che versava mio padre erano tutti per me.
A pagare i suoi conti ci
pensava il manzo di turno.
Quanto l'ho odiata! L'ho odiata con la specie d'odio
peggiore che esista, quello che nasce dalle macerie dell'amore. Una mattina, io
e Carlo avevamo deciso di incontrarci, saltando io le lezioni universitarie e
lui il lavoro. La giornata era incantevole, e mia madre era in gita con la
classe, lontana svariati chilometri dalla città e dalla sottoscritta.
Finalmente riuscivo a respirare profondamente.
Salimmo le scale del mio
condominio come due ubriachi, urtando i muri e aggrappandoci selvaggiamente
l'uno all'altra. Quella mattina avevo messo la gonna. Mi eccitava da morire
camminare davanti a lui, piegarmi quando sapevo che il decoro avrebbe dovuto
impedirmelo, sulle scale mobili del centro commerciale o sulla metro, tra la
gente, consapevole che lui non avrebbe potuto toccarmi come si deve.
A volte lo
faceva, furtivamente, e quelle carezze appena accennate, quegli sfioramenti
apparentemente casuali, avevano il potere di eccitarmi più di tutto quello che
sapevo sarebbe successo dopo.
Mentre camminavamo abbracciati, faceva scendere
discretamente la mano ad accarezzarmi il fondoschiena, con naturalezza; ciò mi
provocava intensi brividi lungo la schiena, soprattutto se qualcuno, meglio se
uomini di mezza età, si era accorto di noi e ci osservava interessato, cosa che
tra l'altro accadeva spesso, visto quant'eravamo spudorati.
Impazzivo
quando tra la folla che si accalcava sugli autobus negli orari di punta, Carlo
faceva scivolare una mano calda tra le mie cosce, dischiudendole con la forza per
potermi accarezzare in profondità.
In quei momenti immaginavo che non fosse lui.
Immaginavo uno sconosciuto qualsiasi, un irreprensibile padre di famiglia o un serio
uomo d'affari, avvicinarsi di
soppiatto e frugarmi ovunque, dentro e fuori, con violenta voracità, fino a
sentirlo gemere di piacere.
Impazzivo dalla voglia, sentivo inumidirsi il
cotone delle mutandine, ma l'orgasmo, quello no, ero convinta di non averlo mai
provato. Io e Carlo eravamo ancora avvinghiati quando giungemmo sul mio
pianerottolo…" (continua)
E
se esistesse una sorte divina legge che impone alle coppie, prima di
dimenticarsi, di farsi tanto male quanto amore c’è stato?
Allora forse si
potrebbe forse giustificare l’odio profondo, le cattiverie e le bassezze che si
riservano gli uomini e le donne che un tempo si amavano e che stanno per lasciarsi… eppure, resto convinta
che la prova del nove dell’amore arrivi proprio quando finisce.
Non
conta chi ha fatto cosa a chi, non conta il rancore accumulato, le notti
bianche e le sere nere, non contano le lacrime, i tradimenti, né il modo in cui
un uomo e una donna riescono a sporcarsi mentre l’amore si va lentamente
esaurendo, quando il vuoto che lascia è così profondo che potresti annegarci.
Quando
due persone smettono di amarsi, se era amore vero te ne accorgi perché il
dolore copre ogni altra sensazione, gettando una spessa coperta di cenere sotto
quello che un tempo era un gioioso falò.
Lì
sotto, ancora viva, resta una scintilla.
Tempo
e dolore avanzano tenendosi per mano, e quando gli anni passati scopriranno
quello che è rimasto, ti accorgerai che la persona che hai tanto amato è ancora
quella a cui auguri tutto il bene e l’amore del mondo.
Tu,
che l’hai amata per davvero, sai che se lo merita.
Anche il bene che ci vogliamo io e te è
una forma di amore.
Non è quello dei film, quello che ti
spacca il cuore, quello delle lacrime e dei “per sempre”, delle notti buie e
degli attimi di esaltazione, quello che la mancanza ti blocca persino il
respiro, ma è pur sempre un amore.
Pacato, rispettoso e incredibilmente
appassionato, è un amore che sa mettersi da parte senza drammi quando si
accorge che no, noi due non siamo fatti per stare insieme.
Non tutte le persone che si amano sono
fatte per stare insieme.
Quasi nessuna, per la verità.
È la fine di un ciclo, la volontà di
farsi del bene fino in fondo.
Chi l’ha detto che il vero amore è
eterno?
Chi ha stabilito che il coronamento ideale
è una vita insieme, magari un matrimonio, e poi finire a odiarci e a maledire i
giorni in cui la magia è andata svanendo?
Magari l’amore è questione di attimi.
Ogni volta che sei stato dentro di me,
io ti ho amato profondamente.
Solo tu nei miei pensieri, nei miei
gesti, nel cuore che batteva contro il tuo… e se non era amore quello!
Ogni volta che ho pensato alla tua
bocca sulla mia, ogni volta che ho sperato di rivederti presto, ogni volta che
non stavo nella pelle al pensiero di noi due nuovamente insieme, seduti a un
tavolino a parlare tenendoci la mano… ogni volta, io ti ho amato.
Ogni volta è durato pochi attimi, ma è
stato amore.
È amore anche il fatto che stasera
sono qui e penso a te e alla nostra ultima volta insieme, al tuo sguardo quando
sono scesa dalla macchina, al sorriso triste mentre scivolavamo via, io dentro
un portone, tu sulla strada che ti portava via, lontanissimo da me.
Sono qui ed è tardissimo, gli occhi si
chiudono, ma ho bisogno di augurarti mentalmente ogni felicità, ho bisogno di
scriverlo per non dimenticare che te l’ho detto e che tu hai capito. Noi ci
siamo sempre capiti, perché non abbiamo mai creduto di doverci qualcosa.
Abbiamo vissuto di segreti per il
mondo, ma non per noi.
Sono attimi che non passano, trattini
incisi sulla pelle, tatuaggi della memoria che non andranno mai via, perché
ogni corpo è segnato dai corpi che ha vissuto, toccato, amato.
Vivere vuol dire proprio questo.
Probabilmente il segreto dell’amore
che dura è dilatare ogni attimo, moltiplicare gli istanti, espanderli fino a
coprire la vita, e allora sì, allora sarà amore vero.
E forse sarà per sempre.
Ma a noi sono stati dati solo quegli
attimi, che custodirò per sempre nel mio cuore…
Come se fosse amore, perché lo era.
Da
ore la spia della benzina gli indicava che era in riserva.
Non
aveva previsto di fermarsi, ma ormai non gli restava altra scelta. Le catene si
erano rivelate utili lungo le strade che si arrampicavano sulla montagna
ammantata di neve fresca, friabile come polistirolo, ma ormai era notte, l’asfalto
stava rapidamente ghiacciando e il rischio di rimanere in panne era più di
quello che era disposto ad affrontare per raggiungere la baita.
Sarebbe
arrivato in ritardo al week-end organizzato dai suoi colleghi, ma non
importava. Non se avesse trovato il modo di passare la notte al caldo,
ripartendo al mattino, con la mente fresca e il volto sbarbato.
Da
quelle parti un tempo c’era una pensione, qualcosa di vagamente simile a un
motel per turisti demoralizzati e dispersi.
Uno stabile alto e lungo arroccato
sul ciglio della strada, le camere sul retro affacciate sul burrone. Piuttosto
lugubre e caratteristico.
Vi
aveva soggiornato con Lisa, ai tempi in cui la loro storia aveva ancora qualche
speranza di funzionare.
Come richiamato dal suo pensiero, superata l’ennesima
curva l’edificio gli si parò davanti all’improvviso, senza dargli il tempo di
accostare. Fece retromarcia e sistemò l’auto in una minuscola radura a bordo
strada. Sbuffò diverse volte, esalando nuvolette di vapore caldo, mentre
prelevava il borsone di viaggio e raggiungeva a lunghe falcate il portone d’ingresso.
Accolto da un silenzio greve e pesante come ghiaccio, il rumore del cofano che
sbatteva era risuonato come una detonazione, facendolo sobbalzare.
Da
una decina di minuti aveva ripreso a nevicare.
Quando
suonò la campanella della reception, il suo giaccone era coperto da fiocchi
bianchi tutt’altro che intenzionati a sciogliersi. Si chiese con una certa
inquietudine se lì avessero il riscaldamento funzionante. Entrando non aveva
avvertito alcuno sbalzo termico, nemmeno un flebile tepore; nella hall si
gelava esattamente come fuori. Si guardò intorno, a disagio.
Aveva
ricordi molto vaghi di quel luogo – quei pochi si confondevano con le immagini
di lui e Lisa che si rotolavano sul materasso cigolante –, ma certo la volta
precedente non gli era sembrato così spoglio e desolato. La luce smorta dei
neon illuminava mobili vecchi e spartani, coperti da strati di polvere spessi
come tappeti.
L’aria era consumata, come se nessuno aprisse le finestre da
giorni, forse mesi. Uno sgradevole odore di muffa, come se qualcosa marcisse in
antri invisibili, lo costringeva a trattenere il respiro.
Alla
reception non si vedeva nessuno, e iniziava a sentirsi a disagio.
Suonò
di nuovo, premendo il dito qualche secondo in più del necessario.
–
Desidera? – bisbigliò una voce alle sue spalle.
Sobbalzò
dallo spavento.
Si girò lentamente, sforzandosi di nascondere il disappunto,
per vedere a chi apparteneva quella voce femminile che infrangeva il silenzio
come una lama graffierebbe il vetro.
Il secondo sobbalzo lo ebbe quando i suoi
occhi si posarono su di lei.
Era
la donna più bella che avesse mai visto.
Non tanto per il corpo snello, i
capelli lunghissimi o la scollatura profonda che esibiva. Era il volto a
catturare la sua attenzione. Occhi magnetici, profondi come pozzi, regalavano
all’ovale un’arroganza pienamente giustificata. Le bastò fissarla qualche
secondo per avere l’assurda sensazione che quel volto fosse l’unica, magnifica
pennellata di colore in un mondo che all’improvviso si era fatto nero, come se
tutto il resto avesse smesso di esistere.
–
Allora? –
Sbatté
le palpebre e fu colto da una lieve vertigine.
Il mondo riacquistò i suoi
colori e la hall la sua polvere, il sentore rancido era più forte che mai.
–
Una stanza… Cerco una stanza per la notte. –
Si
trovò a seguire la sconosciuta su per scale ripide, respirando quell’insopportabile
odore di stantio.
Anche le scale sembravano impolverate.
Nel porgergli le
chiavi, le labbra della donna si arcuarono in un sorriso terribilmente
sensuale. Suo malgrado, sentì il bisogno di cercare i suoi occhi e indugiare più
a lungo di quanto avrebbe voluto nelle due pozze color fango, che sembravano
allargarsi ogni secondo che passava, risucchiando ogni cosa.
Pur
nella sua abbagliante simmetria, il volto di quella donna senza età – poteva
avere vent’anni o quaranta, non era in grado di stabilirlo – presentava
qualcosa di stonato.
Colpa
forse degli occhi troppo grandi, simili a quelli delle donne degli hentai che
amava tanto, o delle labbra sproporzionatamente carnose rispetto al nasino
francese all’insù, un puntino nel mare lattiginoso della sua pelle. Quella
strana donna corrispondeva perfettamente ai suoi canoni, del tutto
irrealistici, di bellezza femminile.
Quella
notte si rigirò a lungo tra le coperte, inquieto e ansioso.
Eppure
non aveva alcun motivo per sentirsi così.
Gli venne da pensare che se un rumore
insistente, in determinate condizioni d’animo, poteva far impazzire un uomo,
altrettanto poteva fare il silenzio più assoluto. Quando sentì stridere i vetri
della finestra, perciò, per prima cosa si sentì sollevato.
Un rumore sordo e metallico
che aumentava d’intensità, provocandogli una curiosa sensazione di pelle d’oca.
Gli ricordava quello delle foglie mosse dal vento che graffiano i vetri… No,
piuttosto un ramo, spezzato dal carico di neve.
O
forse semplicemente un sogno. Non aveva ordinato alle sue gambe di muoversi, ma
queste avevano già scostato il piumone e di lì a poco aveva sentito il
pavimento gelido sotto i piedi.
Uno,
due, tre passi in direzione della finestra.
Le
spesse tende lasciavano trasparire il bagliore accecante della neve, appena
offuscato da una sagoma oscura.
Le aprì e se la trovò davanti. Le labbra
sorridevano, negli occhi si agitavano piccoli vortici che gli davano le
vertigini.
Volteggiava nell’aria immobile, e il tanfo rancido emanato dalle
vesti presto divenne un profumo seducente.
–
Posso entrare? – chiese con voce melodiosa, come se stesse cantando.
Quanto
mi dà fastidio vedere ragazze belle, intelligenti e simpatiche perdersi dietro
un uomo che non le merita.
È
proprio un fastidio fisico, ecco.
Un tempo queste ragazze stavano a casa,
attaccate al filo di un telefono che non squillava mai; interi week-end passati tra le quattro mura della propria stanza, tra lacrime e speranza, sempre più convinte di non valere nulla solo
perché lui non le richiamava.
Poi
c’è stato l’avvento dei telefonini, seguiti a ruota da smartphone e social
network, e lì è stato anche peggio.
Perché
oggi queste ragazze escono, ma le vedi lì, sedute al tavolino di un bar o di un
pub, circondate da amici che letteralmente ignorano, perse come sono ad
armeggiare con quei maledetti aggeggi, appese alla speranza di un suo messaggio
privato su FB, di un cenno su Wazzup (si scrive così?), o almeno di un
aggiornamento di status, tanto per accertarsi che il lui in questione sia vivo
e non perso nei labirinti orgiastici con qualche troione biondo e rifatto (sto
interpretando il pensiero di codeste ragazze eh, non fraintendetemi!).
E
qui veniamo a uno dei motivi per cui io non ho né i-phone, né uno straccio di
smartphone (anche se aimé presto, causa lavoro e necessità di controllare
spesso la mail, potrei trovarmi a doverlo comprare… ma sto cercando di
rimandare quel momento con tutte le mie forze).
Non
ne sento il bisogno.
Se sono fuori, con i miei amici, è con loro che voglio
stare… sennò restavo a casa, no? Voglio essere presente in ogni luogo in cui
vado, voglio godermi appieno la natura, la mia Capiroska, i miei amici, il buon
sesso, gli incontri, l’aroma del caffè e l’ultima crostata che ho sfornato
senza vivere nell’impellenza di pubblicare tutte le foto su FB.
Quello
al massimo lo farò dopo, comodamente, da casa.
Sto
parecchio su FB, perché è un modo per illudermi di non stare lavorando quando
invece, mio malgrado, passo ore al computer per scrivere, editare, correggere e
tutto ciò che il lavoro mi impone; scrivo anche parecchi status e parecchie
cazzate che mi passano per la mente, e rido quando vedo come la gente le prende
sul serio e pretenda di conoscermi attraverso quello che scrivo.
No,
le cose davvero importanti non si scrivono su FB.
Almeno io non le ho mai
scritte.
È
il pudore di una spudorata per natura: nei miei pensieri più segreti,
inconfessabili, a volte persino perversi, ci entrano solo in pochi. Forse in
tutta la vita non si contano sulle dita di una mano.
FB
è uno scherzo sociologico, è un esperimento che divertente, che dà molto
materiale su cui riflettere e su cui scrivere.
Non
ho la pretesa di giudicare, perché il giudizio è la peggior forma possibile di
approccio per chi vuol comprendere la natura umana; o, quanto meno, quel poco
di comprensibile che vi è in essa.
Il
resto è pura irrazionalità, e davvero è decisamente meglio così.
Ciò
che si afferra con la razionalità, raramente ha fascino; ciò che posso ottenere
come e quando voglio, raramente stuzzica il mio interesse, o anche solo un
barlume di curiosità.
Forse
è che voglio vivere nel costante tentativo di afferrare l’inafferrabile, di
catturare quell’attimo che mi faccia sentire viva per davvero, nella vita reale
dico, sensazioni che solo dopo potrò riportare sul virtuale, preferibilmente tra le pagine di un mio libro o racconto.
Non
voglio vivere appesa a un filo-nonfilo, a uno status, a un messaggio, a un uomo
o a un desiderio irrealizzabile.
Non
ho la pretesa di sapere come sia meglio vivere, o quale sia il senso del
vivere, ma quel poco che so in merito è che la dipendenza – da qualsiasi cosa –
è la maniera più insana e infelice di stare al mondo.
E la libertà non è solo fare cose/vedere gente… la libertà è essere presenti
al 100% in ogni attimo, in ogni sospiro ed emozione che fa battere il cuore…
viversela senza proiettarla nel futuro, senza il limite dei doveri che ci
aspettano, senza voltarsi costantemente verso un passato che - per quanto bello
diventi attraverso la trasfigurazione di una memoria che raramente ricorda la verità - in definitiva è morto.
Non morite assieme a lui.
Altrove...
17 Apr 2013 11:31 AM (12 years ago)
"Stasera,
mentre mi facevo la doccia con la finestra aperta e l'aria della primavera
sulla pelle, all'improvviso ho avuto come un deja-vù. Per una frazione di
secondo, una parte di me è tornata a Perugia, a quella sera di fine aprile
quando sono venuta a prenderti alla stazione dei pullman e ti ho gettato le
braccia al collo stringendo così forte che tu mi hai detto, ridendo: “Così mi
soffochi!”.
Poi
però quando ti ho lasciato andare mi hai stretta ancora più forte, così forte
fortissimo che pure il cuore mi scricchiolava ed era ancora più grande il
terrore che si rompesse, l’unica paura non mi abbandonava mai, nemmeno quando
ero insieme a te.
E
una volta a casa le finestre aperte sui boschi e le cicale che già cantavano, e
noi due a letto tra le lenzuola freschissime, il profumo di pulito della pelle
e del cotone, un sacco di amore che nemmeno riuscivamo a dirlo, ma farlo sì. Tanto,
sempre, ovunque.
Ma
quella primavera di più di sempre.
E
poi sono tornata al presente, a una primavera che ha un sapore strano e a
uomini che mi passano accanto senza riuscire nemmeno a sfiorarmi, perché io,
ormai, sono sempre altrove."
Famosissima
nei primi decenni del Novecento, dopo il secondo conflitto mondiale Irène Némirovsky
fu completamente dimenticata sia dalla Francia – nazione in un cui trascorse
gran parte della sua esistenza, che l’aveva celebrata come la sua più grande
scrittrice – che dal resto del mondo. Una Francia crudele, che non mostrò
alcuna solidarietà per il suo destino di deportata (la Némirovsky, infatti, morì
di tifo ad Auschwitz) né per quello di tanti altri ebrei francesi, e che dopo
la guerra rimosse ogni ricordo assieme all’insostenibile orrore della guerra.
Nata
a Kiev nel 1903 in una famiglia appartenente all’alta borghesia finanziaria
(suo padre era un banchiere ebreo), durante l’infanzia Irène riceve un’educazione
classica e pochissimo affetto sia da parte della madre – quella Fanny Némirovsky
bella e egocentrica, dedita esclusivamente ai divertimenti mondani e agli
amanti, che tornerà spessissimo nella produzione letteraria della scrittrice –
che da parte del padre, completamente preso dai suoi affari e succube del gioco
d’azzardo. Dopo la rivoluzione bolscevica, la famiglia Nemirovsky, appartenente
alla classe agiata dei “russi bianchi”, affaristi e anticomunisti, per sfuggire
alle persecuzioni è costretta a lasciare la Russia, rifugiandosi prima in
Finlandia poi in Svezia.
La
piccola Irène cresce quindi in esilio, approdando definitivamente in Francia, a
Parigi, ormai adolescente. Si laurea con lode alla Sorbona e frequenta
assiduamente la classe intellettuale del suo tempo, partecipando a convegni
culturali, feste e balli eleganti.
Il
suo talento letterario viene presto notato: nel 1929, infatti, viene pubblicato
il suo primo romanzo, Daniel Golder, la storia dell’ascesa e caduta del
finanziere ebreo Golder, che la Némirovsky inviò all’editore firmandosi con uno
pseudonimo maschile, e che vendette ben sessantamila copie.
Nel
1933 pubblica Les mouches d’automn, nel 1935 Le vin de solitude, nel 1936 Jézabel,
nel 1938 La proie, nel 1939 Deux e nel 1940 – appena due anni prima del suo
arresto e della deportazione – Les chiens et le loups. Scrittrice
particolarmente feconda, apprezzata sia dal grande pubblico che dalla critica,
vide la sua carriera subire una brusca decelerata a causa della guerra e della
promulgazione delle leggi antisemite.
Non
potendo più pubblicare con la sua firma né collaborare con giornali e
periodici, per un certo periodo Irène scrisse sotto pseudonimo, pubblicando i
suoi racconti anche per il giornale antisemita Gringoire. È questo uno dei
motivi per cui, nonostante le sue origini, in seguito sarà accusata di antisemitismo:
“l’ebrea antisemita”, verrà infatti soprannominata nel 2008 da alcuni critici
americani. L’accusa si fonda prevalentemente sulla sua produzione letteraria,
su quei romanzi costellati da figure di ebrei al limite della caricatura, quasi
delle macchiette, ricettacolo di tutti i luoghi comuni usati dalla propaganda
antisemita. Tuttavia, leggendo tra le righe, appare evidente che Irène Némirovsky
non odia affatto il suo popolo: è una scrittrice, e come tale considera
criticamente la realtà che la circonda; ama la sua gente, ma non può fare a
meno di sottolinearne con ironia le contraddizioni, le meschinità più o meno
giustificabili e il carico di orrore che la guerra riversa sugli uomini,
mettendo il luce i loro lati più meschini.
Tra
il 1941 e il 1942, reclusa col marito nella loro casa di campagna, Irène scrive
Tempête en Juine Dolce, rispettivamente la prima e la seconda parte del
progetto Suite française, che vorrebbe pubblicare al termine della guerra, pur
rendendosi presto conto che la sua resterà solo una speranza: verrà infatti
arrestata dalla gendarmeria francese e deportata in Germania.
Il
suo oblio è durato quasi sessant’anni, in cui la Nemirovsky scomparve dal
panorama editoriale e letterario; fino a quando, nei primi anni Novanta del
secolo scorso, l’editore Grasset ristampò le sue opere. Contemporaneamente,
anche in Italia accadeva la stessa cosa: in un primo tempo con Feltrinelli, che
nel 1989 pubblicò “Il ballo” e nel 1992 “David Golder”.
Ma
sarà Adelphi, l’editore italiano di Iréne Némirovsky, a pubblicare l’intera
produzione di una scrittrice unica nel suo genere, che seppe parlare della vita
e della guerra con straordinario acume e ironia, che seppe indagare le infinite
passioni dell’animo umano e trasmetterle al lettore senza filtri né ipocrisie,
con la leggerezza propria di chi guarda oltre l’apparenza, accettando l’essere
umano per quello che è: né buono né cattivo, semplicemente “umano”, mutevole e
complesso.
Oggi
Suite francese è probabilmente il romanzo più famoso della Némirovsky,
vincitrice del prestigioso “Prix Renaudot”, esploso ovunque come un caso
letterario e tradotto in oltre trenta paesi. Romanzo corale e realistico, che
si ispira apertamente ai grandi romanzieri della letteratura ottocentesca
(Balzac, Dickens e sopratutto Tolstoj, il vero modello), Suite francese fu
scritto quasi contemporaneamente agli avvenimenti che narra, i primi
bombardamenti su Parigi e l’arrivo dei tedeschi nel giugno del 1940.
Si
tratta di un’opera incompleta, poiché la struttura originaria prevedeva cinque
parti di uguale tonalità – da qui il titolo di “suite” – ma la scrittrice
riuscirà a terminare soltanto le prime due parti, Tempesta di giugno e Dolce.
Tempesta
di giugno narra con ironia e ricchezza di particolari l’esodo dei parigini,
spaventati della veloce avanzata tedesca, verso la campagna e la provincia.
Parigi ci appare come una città post-apocalittica, quasi asettica per via dell’ordine
che regna nelle case abbandonate, dove ogni cosa è impacchettata e ricoperta da
teli che sembrano voler congelare simbolicamente un presente destinato a non
tornare così presto. La gente scappa dalla guerra, ma ancora non capisce bene
cosa sia, questa guerra: ognuno conserva le proprie abitudini, i vizi e perfino
i vezzi di classe, fino al tragico momento in cui si renderà conto che di
fronte all’orrore della guerra, gli uomini sono tutti uguali.
Dolce,
ambientato a Bussy, piccolo villaggio rurale occupato dai nazisti, narra con
straordinaria autenticità la convivenza forzata tra vincitori e vinti e il
tenero sentimento nato tra una giovane infelice, moglie di un prigioniero al
fronte, e l’ufficiale tedesco che alloggia in casa sua.
A
tenere insieme questa galleria di personaggi strambi è la Storia, rappresentata
come una sorta di potenza unificatrice, livellatrice di un’umanità varia e
sfaccettata.
Leggendo
le opere di Irène Némirovsky quello che colpisce è l’approfondimento emotivo e
psicologico, mai banale, di quell’umanità che la scrittrice sembra conoscere
così bene, e di quei meccanismi – familiari, sociali, affettivi – di cui la sua
scrittura acuta e ironica sembra svelare trame e segreti. È questa la magia
anche dell’ultimo edito in casa Adelphi, Il vino della solitudine, opera
profondamente autobiografica.
Questa
volta al centro dell’attenzione della scrittrice c’è il rapporto che lega ogni
donna-bambina a sua madre, rapporto complesso e pieno di contraddizioni specie
per chi – come Irène e come la piccola Hélène, protagonista del libro – è stato
poco amato.
“Da
un’infanzia infelice non si guarisce mai”, era solita dire la scrittrice, e
questo romanzo spiega bene il perché. È difficilissimo non immedesimarsi nelle
vicende dei protagonisti, quasi impossibile restare lettori indifferenti
dinanzi alle vicende narrate da una scrittrice che, dopo un lunghissimo oblio, è
tornata famosa quasi per uno scherzo del destino.
Una
scrittrice che oltre a scrivere divinamente è in grado di far vivere i suoi
personaggi e rivivere un’epoca, gli anni Trenta del secolo scorso,
indimenticabile e terribile.

Secondo
le statistiche, un visitatore su tre di siti come “YouPorn” è donna.
Ebbene
sì, le donne non lo ammetterebbero mai, ma guardano il porno esattamente come
gli uomini, e se ci fossero meno pregiudizi magari lo guarderebbero di più, più spesso.
Peccato
che il porno – quello che conosciamo, quello che si trova sui suddetti siti e
che ormai invade la rete, al punto che persino i ragazzini possono accedervi
come e quando vogliono – beh, questo
porno è orribilmente diseducativo. E no, non perché si parla di sesso, e il
sesso è peccato e non si fa e comunque se si fa non se ne parla e blablabla.
No, dovremmo ficcarci in testa che il sesso è bello, che più se ne fa e meglio
è, che è bello giocare, sperimentare, scambiarsi ruoli, provare esperienze e
posizioni diverse, amare con tutto – corpo-cuore-anima-cervello
– a 360 gradi, che siamo esseri umani anche per questo e davvero non c’è
niente, niente che rappresenti la vita meglio del sesso.
Dovremmo
ficcarcelo in testa (no, la scelta del verbo non è casuale, oltre a Freud lo
dico anch’io!) e ancor di più dovremmo ficcarlo in testa ai nostri ragazzi.
Dovremmo
dirgli che uno può credere in Dio e farsi delle sacrosante scopate, che
proteggersi dalle malattie non è tentato omicidio di ipotetico futuro minore e
che se Dio ci ha donati di un corpo così sensibile, così vibrante, così pronto
a darsi e a ricevere, beh, un motivo ci sarà!
E
chissenefrega di chi dice il contrario.
Abbiamo un cervello, ci serve per
pensare autonomamente, non certo per aderire pedissequamente a dogmi dettati da
qualcun altro. Questo
solo per chiarire cosa penso io del sesso, perché già prevedo le accuse di
moralismo di chi non capisce una mazza di ciò che legge.
Il
problema è che il porno – tutta la
pornografia com’è concepita fin dalla sua nascita – è profondamente misogino. Non maschilista, attenzione, ma proprio misogino.
Il
perché lo spiega ampiamente un bellissimo libro di qualche tempo fa, Pornopotere di Pamela Paul.
I
film porno replicano stereotipi che vedono le donne oggetto dei desideri e
delle voglie maschili, e la situazione è ancora peggiore se si considera il
porno italiano, che letteralmente pullula di INCESTI e STUPRI…. Ci rendiamo
conto? Davvero è questa l’idea di sessualità che vogliamo trasmettere ai nostri
figli o comunque alle generazioni che disgraziatamente imparano a fare sesso
proprio guardando questo genere di pornografia?
Del
resto, anche se è impossibile fare delle stime precise, visto la difficoltà di reperire
statistiche oggettive, è un dato di fatto che moltissime pornostar e attrici
hard hanno alle spalle un passato di violenza, e che le testimonianze di alcune
di loro relative alla situazione sui set a luci rosse è agghiacciante. Non è un
caso se moltissime pornostar – Jenna Jameson
su tutte, come rivelato da lei stessa nella sua biografia – nell’infanzia hanno
subito abusi sessuali orribili, dalle violenze da parte degli uomini di
famiglia agli stupri di gruppo. E non è nemmeno un caso se moltissime di loro fanno
una brutta fine, morte suicide oppure di overdose. Un giorno, in un articolo a
parte, vi parlerò di Sandy Balestra,
pornostar molto conosciuta negli anni Novanta, la ragazza cui Rocco Siffredi in
un film mise la testa nel cesso per poi tirare lo scarico.
In
un altro articolo, che sennò rischio di perdere il filo.
E
per chi si stesse chiedendo come faccio a sapere tante cose sul mondo della
pornografia, la risposta è semplice: le ho studiate. Perché la mia tesi in
sociologia aveva molto a che fare con questo mondo, ma anche questo è un altro
discorso.
Il
problema non è il porno, ma il sessismo becero che lo pervade, e soprattutto il
fatto che il porno è pensato e
realizzato da uomini, soprattutto è realizzato in modo da mettere in scena
desideri, perversioni e fantasie esclusivamente maschili; per rappresentarle
ovviamente sono necessarie anche attrici donne, che recitano però una parte
assegnatagli dagli uomini.
Accade
così, del tutto coerentemente, come fa notare Pamela Paul, che le attrici siano
il più delle volte molto più belle dei loro colleghi maschi, che non di rado
sono vecchi, brutti e panzuti.
Quale
ragazza reale avrebbe come fantasia sessuale quella di praticare una fellatio a
un vecchio disgustoso? Ci vorrebbe un porno più rispettoso della dignità dei
due sessi e dei loro legittimi desideri.
Prestazioni
lunghissime e degne di un allenamento in palestra, posizioni acrobatiche e
pratiche svilenti per la donna, dove le attrici simulano il piacere a esclusivo
beneficio maschile: si tratta di un piacere che non provano, anche perché se
gli attori maschi hanno sempre un orgasmo a fine scena, le dirette interessate
ammettono candidamente che un’attrice hard quasi mai ha un orgasmo sul set di
un film porno, né prova piacere; se è fortunata, non prova nulla. È un lavoro
come un altro, dicono.
Nei
film porno il piacere femminile non viene tenuto in nessuna considerazione,
perché il film porno è la rappresentazione del desiderio maschile nella sua
espressione peggiore.
E
il vero problema è che sempre più persone, uomini e donne, vivono una
sessualità improntata sugli stereotipi veicolati dai film porno.
Sempre più uomini credo che è
imitando i pornoattori che faranno felice una donna.
C’è
bisogno di dire che non v’è convinzione più errata?
Proprio
per questo motivo mi ha molto incuriosita la notizia che a Toronto si sono
appena tenuti i “Feminist Porn Awards”, gli Oscar del porno… femminista!
Quelli
che finora erano due termini antitetici, improponibili nella stessa frase, oggi
potrebbero convivere alla perfezione, o perlomeno così pensa la “guru” di
questo movimento, Carlyle Jansen, che proprio a Toronto gestisce un negozio di
giochi sessuali per sole donne.
Che il nuovo femminismo passi
proprio per il porno? Non male,
come idea.
Se
pensiamo che tutto cominciò con la celebre frase “l’utero è mio e me lo gestisco io”, sembrerebbe quasi un ritorno
alle origini.
Ancor
di più considerando che il messaggio originario della rivoluzione sessuale anni
Settanta è stato completamente stravolto, rivoltandosi
contro le stesse donne, che da essere private di una sessualità libera,
sono state praticamente ridotte alla propria sessualità.
Lo
vediamo giornalmente sui giornali, sul web, per strada ma ancor di più in
televisione.
Il
porno femminista dice addio alle bambolone siliconate tutte tette e labbra in
favore di un’immagine femminile più spontanea, realistica e appassionata: sul
set dei film prescelti, infatti, solo orgasmi reali, piacere vero e intrecci un
pelo (nemmeno questo termine è a caso!) più approfonditi rispetto al porno
tradizionale, dove ogni cosa si riduce all’amplesso.
Non
solo film lesbo, ma anche etero, che non risparmiano scene forti.
Non
certo un porno soft, dunque, semplicemente una messa in scena dei desideri
delle donne, sottomissione e voyerismo compreso, perché non si censura nulla,
ma ogni scena viene registrata nel pieno rispetto delle attrici, cosa che nella
pornografia non accade quasi mai.
Anche
se molte femministe ritengono il porno inconciliabile con la dignità delle
donne, io in questo caso non sono d’accordo… voi che ne pensate?

Spiaccicai
il naso contro il finestrino cercando di capire dove ci trovassimo.
Il
treno, semideserto in quel martedì d’inizio dicembre, era diretto con oltre due
ore di ritardo verso Milano.
I pochi, insonnoliti passeggeri erano perlopiù
gente d’affari che aveva sonnecchiato per tutta la durata del viaggio, cullata
dal costante ronzio del treno e dall’aria calda che investiva lo scompartimento
a ondate regolari. Un’inconsistente patina di brina e nevischio era scesa a sbiancare
le dolci curve degli Appennini, rallentando ulteriormente il già disastrato
traffico ferroviario.
Sospirai
piano e mi morsi forte il labbro, cercando di non farmi prendere dall’ansia.
Era
tardi, non sarei mai riuscita a prendere una coincidenza che mi consentisse di
arrivare a destinazione prima di mezzanotte, tanto valeva scendere alla
prossima fermata, cercarmi un albergo dove passare la notte e riprendere il
viaggio il mattino dopo, tranquilla e riposata.
C’è
un’inspiegabile magia nei viaggi fatti in treno al calar della sera, nel modo
in cui l’oscurità sfreccia fuori i finestrini intervallata da lampi di luce che
lasciano dietro di sé minuscole scie, simili a stelle cadenti poste a indicarci
attimi e luoghi che non conosceremo mai.
Scesi
in una stazione deserta, spazzata da un vento freddo e infuriato che sollevava
polvere e carte, facendole volteggiare come coriandoli in minuscoli tornado. La
sala d’aspetto era sporca e desolata sotto il fascio di un neon che andava a
intermittenza e le pensiline oscillavano pericolosamente, creando strani giochi
di ombre sui muri sporchi e scrostati.
Si trattava di una piccola città di
mare, di quelle che d’estate venivano letteralmente prese d’assalto da turisti
inferociti, ma che d’inverno recuperavano tutta la loro placida e desolata
solitudine.
Nel
piazzale antistante, i posteggi per pullman si susseguivano vuoti fino a un
edificio malandato che sembrava un misto tra un’edicola, un bar e una sorta di
biglietteria. Mi avvicinai con tutta la velocità consentita dal valigione che
mi trascinavo dietro. Un omone grande e grosso, che da solo occupava quasi
l’intero gabbiotto, facendolo sembrare minuscolo, m’informò con un grugnito che
l’Hotel più vicino era il San Cristoforo, a duecento metri sempre dritto.
Preferii non disturbarlo ulteriormente mentre infilava un enorme dito nel naso
e riprendeva in mano la rivista che stava sfogliando al mio arrivo.
Mentre
camminavo mi accorgevo di come la città attorno a me cambiasse
impercettibilmente.
Dopo
svariati metri di negozi chiusi e saracinesche abbassate, anonimi portoni di
condomini di periferia e bidoni della spazzatura ricolmi, incontrai finalmente
il primo ristorante aperto, un take-away cinese, e le luci brillanti e colorate
di insegne e vetrine si sommarono alla luce fredda dei lampioni, facendomi
intendere con sollievo che se non altro mi stavo dirigendo verso il centro
città.
L’albergo
era un severo edificio a cinque piani, simile in tutto e per tutto a un palazzo
di uffici a eccezione dell’entrata, una porta a vetri con sopra un elaborato
stemma che introduceva in un atrio flebilmente illuminato, adornato da un
enorme, logoro tappeto e gruppetti di malconce poltrone di pelle.
Mi guardai
intorno, intimorita. Il vecchio televisore all’angolo era spento, e dietro il
bancone non si vedeva nessuno. “Se non altro di sicuro c’è posto”, constai con
sollievo, rendendomi conto che delle cento chiavi ospitate in altrettante
minuscole celle la maggior parte erano al loro posto.
Se
non si fosse presentato nessuno, avrei dovuto decidermi quantomeno a chiamare.
«Buonasera»
dissi quindi, poco convinta.
La
mia voce si perse nell’immenso locale.
Mi schiarii la gola, avrei dovuto fare
di meglio.
«Buonasera!»
tuonò una voce appena dietro di me.
Sobbalzai spaventata.
Prima
che facessi in tempo a voltarmi, un uomo bel oltre la mezza età mi fu davanti.
Era alto e smilzo, con la testa pelata e un paio di sopracciglia bianchissime
aggrottate fin quasi a formare un unico cespuglio indistinto, e mi fissava con
occhi severi sul volto rugoso. Sembrava in attesa di una mia richiesta, così mi
riscossi e parlai con quella vocetta bassa e tremante che mi viene quando ho a
che fare con degli sconosciuti.
«Volevo
sapere se era possibile pernottare qui stanotte…voglio dire, se c’è una camera
disponibile.»
La
risposta mi colse di sorpresa.
«Sei
fortunata, mia cara» disse il vecchio, zoppicando verso il bancone. «Ho
l’ultima camera libera. 87, quinto piano. Colazione domattina alle sette, primo
piano.»
Lo
guardai costernata. Quinto piano? Con tutte quelle stanze libere?
Mi
tendeva una chiave dorata che dondolava lentamente attaccata a un grosso
porta-chiave a forma di mappamondo.
Siccome non mi decidevo a prenderla né a
parlare, alla fine il suo sorriso si tramutò in cipiglio.
«Be’
è vero, non abbiamo l’ascensore, ma purtroppo è l’ultima disponibile, prendere
o lasciare!»
L’idea
di lasciare mi spaventava troppo, così presi la chiave e mi feci difilato
almeno cento gradini. Quando finalmente strattonai la valigia sul pianerottolo
del quinto piano mi sentivo prossima all’infarto. La lampadina di fronte alle
scale doveva essersi fulminata, e il corridoio era immerso in una semioscurità
intervallata solo da un paio di neon sul soffitto. Tutto l’insieme aveva un
aspetto irreale e desolato, col suo silenzio immobile e la moquette scura,
ispida e consumata in più punti. Una freccetta indicava che la mia camera era
sulla destra, era la penultima e sicuramente l’unica occupata dell’intero piano.
Maledissi tra me l’avarizia e l’ostinatezza di quello che mi era sembrato il
portiere: probabilmente quella era l’unica camera che si degnavano di pulire,
assegnandola di tanto in tanto a ignari viaggiatori di passaggio.
Dopo aver
sistemato il mio beauty-case sulla mensola del bagno e riposto un cambio
d’abiti nell’armadio, uscii per mangiare qualcosa. Il portiere non era più al
suo posto e la cosa anziché sollevarmi m’innervosiva, correvo il rischio di
vedermelo di nuovo sbucare all’improvviso da chissà dove.
In
strada mi affrettai verso dove le luci si facevano più fitte e indistinte, alla
ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Ora che l’ansia si era calmata,
stavo improvvisamente iniziando a sentire i morsi della fame.
Dopo dieci minuti
di cammino mi trovai all’inizio di un viale largo e illuminato, probabilmente
il corso centrale della cittadina, costeggiato su entrambi i lati dalle
sfavillanti vetrine dei negozi e ornato da arcate di colorate luci natalizie.
La gente passeggiava lentamente, in coppia e a piccoli gruppetti di familiari o
amici, completamente priva di quel nervosismo frettoloso che ha quando deve
correre da qualche parte. L’aria profumava di zucchero filato e costose eau de
toilette da signora, piccole folle sostavano nei pressi di caffetterie e tavole
calde, che come tante stufe diffondevano attorno a loro calore e odore di cibo.
M’infilai
nella prima pizzeria che trovai, un minuscolo locale interamente occupato da
tavoli di legno dove alcune persone consumavano tranci di pizza al taglio.
Uscendo imboccai senza pensare una stradina laterale, per evitare quella
festante confusione serale e l’atmosfera natalizia che mi metteva
un’inspiegabile tristezza. Mi spaventai moltissimo quando mi sentii tirare per
il cappotto dal basso, come se un cane ne avesse addentato un lembo e lo stesse
strattonando a tutta forza.
Mi
tirai indietro, emettendo un gridolino spaventato.
La
ragazza mi fissò con gli occhioni sgranati, visibilmente dispiaciuta. Si
prodigò in frenetici segni con le mani, muovendo anche la bocca che però non
emetteva nessun suono, e alla fine abbandonò le braccia in grembo, mortificata
e visibilmente esausta per lo sforzo. Era seduta a terra, la lunga gonna rossa
attorcigliata alle gambe e uno scialle di cotone nero a coprirle le spalle
nude; vestiva come una zingara, ma tutto il resto nel suo aspetto indicava che
non lo era affatto: aveva capelli lisci e sottili, così biondi da sembrare
bianchi, e la pelle lattea modellata in tratti delicati, spruzzati di
lentiggini. In un altro luogo l’avrei definita bellissima, lì per lì pensai
solo che sembrava spaventata e triste. Mi guardava supplicante, tendendomi un
cesto in vimini foderato di rosso che conteneva una manciata di monete di poco
valore. Tirai fuori il portafoglio e impulsivamente vi depositai una banconota.
«Comprati
uno scialle caldo» le dissi, non sapendo se avrebbe capito.
Era
incredibile come riuscisse a non tremare schiaffeggiata da quella gelida
tramontana che riusciva a insinuarsi perfino sotto gli abiti.
Lei sorrise e
mise via il cesto facendomi segno di allungare la mano. Quando me la prese tra
le sue, minuscoli tizzoni di ghiaccio che mi fecero sussultare, pensai volesse
leggermela. Invece ci mise dentro un pacchettino di carta ruvida e mi chiuse in
pugno, tornando a poggiarsi contro il muro e disinteressandosi completamente a
me. Guardai esterrefatta quel piccolo dono e, non sapendo che fare, mormorai
una generica frase di saluto e andai via.
Nel
tragitto fino all’albergo agitai senza sosta il pacchettino che emetteva un
tintinnio simile a quello di un campanello di metallo, e una volta in camera
spiegai la carta marrone in cui era avvolto. Se possibile il mio stupore
aumentò ancora quando mi trovai tra le mani una bottiglietta di vetro
trasparente, ricolma di granelli di sabbia colorati che immaginai essere sali
da bagno e chiusa con un tappo di sughero. Sul vetro era incisa una specie di
filastrocca:
Animo
di mare, vento di tempesta, gridale forte che lei sola non resta
Animo
di mare, vento di ponente, dille solo che è sempre nella mia mente
Oh
animo soave, pozzo di malinconia, fa si che lei ritorni a esser mia
Era
dolce e insieme triste, perfettamente aderente al mio umore di quella sera, e
più volte me la ripetei a mente sotto la doccia e poi a letto, mentre scivolavo
lentamente nel sonno. Mi risvegliai dopo quelli che mi parvero pochi minuti,
improvvisamente all’erta, con la certezza che il mio sonno fosse stato
interrotto da qualcosa. Nelle fitte tenebre della stanza riuscivo appena a
distinguere la sveglia digitale i cui numeri lampeggiavano debolmente di verde.
Era
da poco passata la mezzanotte. Accesi la luce, cercando di capire cosa poteva
esser sbattuto o caduto, ma era tutto in ordine: la finestra chiusa, la valigia
poggiata contro il muro e i vestiti accatastati sulla sedia. Stavo per
ributtarmi il piumone sulla testa, quando lo udii.
Un
flebile lamento, un piagnucolio sottile e insistente, sempre uguale, che
sembrava provenire dalla stanza accanto. Un brivido che non aveva nulla a che
fare col freddo mi percorse la schiena in un guizzo veloce che mi accapponò la
pelle. Ero convinta di essere la sola a quel piano.
Probabilmente
mi sbagliavo, mi dissi, cercando di mettere a tacere le assurde e macabre
fantasie da film dell’orrore di terz’ordine che stavano facendo capolino nei
miei pensieri.
Ma
il lamento continuava, a tratti più acuto, a tratti interrotto da colpetti
simili a singhiozzi.
Non
saprei spiegarlo sensatamente, ma qualcosa in quei suoni sconnessi riuscì pian
piano a tranquillizzarmi: vi era come una nota tenera e insieme infelice che mi
fece percepire il tutto come una richiesta d’aiuto piuttosto che un maleficio.
Al di là della parete poteva esserci una persona, con ogni probabilità una
donna a giudicare dal timbro quasi musicale del lamento, che forse aveva
bisogno d’aiuto. Infilai la vestaglia e con mano tremante girai la chiave nella
toppa.
La
porta si aprii con l’abituale cigolio e io trattenni il respiro, non udendo più
il lamento.
Nel
pianerottolo immerso nel buio spiccava la striscia di luce gialla che proveniva
dalla porta socchiusa della stanza 88… Allora era vero, c’era qualcuno! Mi
avvicinai in punta di piedi, col cuore che mi martellava forte nelle orecchie,
e più volte fui sul punto di sgattaiolare in camera senza guardarmi indietro e
chiudere la porta a doppia mandata.
Eppure
quando ebbi dinanzi a me la porta non esitai a spingerla con forza, non aveva
senso aspettare e crogiolarmi nella mia paura. Quello che vidi era strano e
normale al tempo stesso.
Nella
stanza, un unico locale senza bagno, non c’era nessuno. Per certi versi era una
normalissima camera d’albergo – come la mia era arredata con un enorme armadio,
un letto a una piazza e mezzo e una scrivania incassata sotto la finestra – ma
era addobbata in tutto e per tutto come la stanza di un’adolescente: un piumone
a fiori colorava il letto disseminato di cuscini e peluche strapazzati, le
tende erano di impalpabile satin rosa, le pareti ricoperte di poster e ovunque
era disseminata un’incredibile quantità di abiti e scarpe femminili.
Un
tenue aroma di lavanda impregnava l’aria e stranamente mi calmava. Non c’era
nulla da temere, lì. Ma dov’era lei? All’improvviso mi accorsi di un
particolare che non avevo notato prima.
Qualcosa
brillava sul piumone, tra le morbide onde di stoffa e il caos di pupazzetti.
Mi
avvicinai e presi in mano una bottiglietta simile in tutto e per tutto a quella
che la mendicante mi aveva regalato la sera prima: conteneva una polvere
colorata, quasi fosforescente, ed emanava intorno a sé un’aura di luce che
sembrava uno sciroppo d’arcobaleno, tali e tanti erano i colori da non poterli
nemmeno distinguere; sul vetro trasparente alcune parole erano vergate in
inchiostro nero. Le lessi ad alta voce, dimentica di ogni cosa che non fosse
quella meraviglia di luce che avevo tra le mani, e arrivata alla fine seppi
istintivamente cosa dovevo fare.
Non
l’ho mai raccontato prima ad anima viva e so che può sembrare follia, ma la mia
mente macinava ininterrottamente un unico proposito, l’intero mio corpo tendeva
verso quella meta.
Era
mai possibile che qualcosa di pericoloso, malvagio o addirittura luciferino potesse
esser accompagnato da una sensazione così intensa di pace, dalla più serena e
lieta convinzione di essere nel giusto? Non riuscivo a crederlo. Seguendo il
canto della voce conosciuta, che adesso intonava la filastrocca in una nenia
infinita e silenziosa, scesi a perdifiato le scale, attraversai l’atrio vuoto,
dominato dalle ombre, e fui nel gelo della notte cittadina.
Nel
mio cammino non incontrai nessuno. Attraversai il corso deserto, un luogo
fantasma addormentato eppure vigile, che mi scrutava con sospetto mentre
avanzavo sicura e raggiante verso la mia meta. Il mare. Passato il corso mi
ritrovai in un viale buio, costeggiato da fila di ville con enormi cancelli in
ferro battuto che si curvavano su di me, sospetti, mentre un vento sempre più
forte strappava le foglie dagli alberi e percuoteva i lampioni rimasti accesi,
facendoli sibilare nella loro luce tremolante. Iniziavo a sentire l’aroma del
mare, la furia scrosciante e rabbiosamente impotente con cui percuoteva la
scogliera artificiale del lungomare.
In
lontananza bagliori rossastri annunciavano tuoni il cui eco vibrava soffocato e
minaccioso nel silenzio della notte. Di lì a poco sarebbe arrivata una
tempesta. Il mare era inferocito, onde sempre più alte ghermivano nuovi lembi
di roccia, schiaffeggiando con forza il cemento degli argini.
Presto
avrebbe guadagnato la strada, ne ero certa. Non aveva più senso aspettare, era
il momento giusto. Mi sporsi più che potevo oltre il muretto che si affacciava
sugli scogli, il busto teso verso l’acqua e il viso spruzzato di salsedine e
minuscoli getti di acqua salata. Ancora un po’ e sarei caduta, ma non
m’importava. Tolsi il tappo della bottiglietta e la capovolsi.
Un
miliardo di granelli fatati turbinarono nel nero assoluto dell’aria,
affollandola di stelle multicolori che il vento portò sempre più in alto, fino
a perdersi nelle nubi scarlatte. Per pochi istanti mi sembrò di essere avvolta
nel cielo stellato come in un mantello, e perfino il mare parve acquietarsi. Le
stelle pulsavano lampi di luce accecanti, io ridevo ed era così bello…così
bello…
Lo
stridulo scampanellio della sveglia mi strappò impietosamente al mio sogno.
Erano
le otto, constatai con disappunto. Infilai gli abiti stropicciati del giorno
prima, riservandomi di fare una doccia e cambiarmi al ritorno, e corsi al primo
piano sperando di trovare ancora qualcosa di commestibile senza dover
affrontare la faccia arcigna del portiere.
Fui
piacevolmente sorpresa dalla simpatica cameriera che mi servì un cornetto e mi
preparò il cappuccino, mentre due tavoli più in là del mio una coppia in avanti
con gli anni chiacchierava in inglese sorseggiando un espresso. Il solo odore
del caffè bastò a dissipare le ultime tracce di sonno. Mi sentivo in forma,
stranamente riposata nonostante le condizioni del mio letto - strattonato e
sventrato fino all’inverosimile - mi avessero indicato che dovevo essermi
agitata parecchio durante la notte. Il sogno. Lo ricordavo alla perfezione, il
che decisamente non era da me.
«Dormito
bene?» la voce della cameriera mi strappò alle mie riflessioni.
Mi
stava portando un tazzone fumante e sorrideva gentilmente.
«Si,
grazie – ricambiai il sorriso e alzai la testa verso di lei.
Fu
allora che mi accorsi dei ritagli di giornale incorniciati e appesi sul muro.
Non riuscii a leggere nulla, ma fui immediatamente colpita dalla foto in cui mi
sorrideva la ragazzina che mi aveva chiesto l’elemosina la sera prima. Che
strano, pensai tra me. Eppure ero certa di non sbagliarmi: stessi lineamenti,
stessi capelli sottili e arruffati, candidi nel bianco e nero della foto, e
soprattutto stessi grandi occhi malinconici. Tirai la cameriera per l’uniforme,
come aveva fatto la ragazza con me il giorno prima.
Lei
si girò, stupita.
«Chi
è?» chiesi con un nodo in gola.
La
ragazza seguì il mio sguardo sulla parete e quando capì a cosa mi riferivo il
suo volto si atteggiò a una maschera triste, leggermente affettata.
«Ah,
lei!» scosse la testa. «Era la figlia del proprietario dell’albergo. L’avrà
conosciuto ieri sera, quand’è arrivata. La poveretta si chiamava Serena, aveva
soli diciassette anni quando è morta…è successo dieci anni fa.»
La
giovane si interruppe per guardarsi attorno e poi si chinò verso di me con fare
cospiratore.
«Pensi,
si è suicidata! Il suo fidanzato era un pescatore, morì in mare durante una
tempesta, se non sbaglio proprio in questo periodo… Era prima di Natale,
comunque. La poveretta non si riprese mai dal colpo e qualche giorno dopo la
trovarono in camera con i polsi tagliati. Pensi che è successo proprio qui e…» s’interruppe
di colpo, improvvisamente consapevole di aver detto troppo.
Dunque
era successo proprio lì! Non avevo bisogno di sapere in quale camera.
Seguita
dallo sguardo attonito della ragazza e dei due turisti stranieri, uscii quasi
correndo dalla sala e in un attimo fui in camera. Cercai a lungo la
bottiglietta, buttai all’aria tutti i vestiti e aprii decine di volte ogni
cassetto, ma sembrava sparita nel nulla. L’avevo forse sognata? Avevo sognato
anche l’incontro della sera prima? Com’era possibile, se lo scontrino della
pizza era ancora accartocciato nella tasca del mio giaccone? C’era un unico
modo per saperne di più.
Una
vaga inquietudine stava rapidamente prendendo il posto dell’agitazione quando
mi decisi e abbassai la maniglia della camera 88, convinta di trovarla chiusa
come qualsiasi camera non occupata di un hotel. Lo stomaco si contrasse
dolorosamente quando la porta cigolò e si spalancò senza alcuna pressione da
parte mia. Nella stanza non c’era nulla, né un armadio, né una scrivania, né
oggetto alcuno: solo un letto spoglio, e abbandonata sul materasso sporco la
mia bottiglietta, vuota, che non luccicava più. La presi con mani tremanti e
lessi, vergato in una calligrafia piccola e arrotondata, piena di delicate
curve quasi infantili:
Grazie
(Clicca qui per scaricare il racconto)
Ciao lettori e lettrici!
Come promesso, in arrivo un altro
giveaway tutto per voi!
Questa volta voglio mettere in palio
un libro che ho amato moltissimo, edito Garzanti e uscito appena qualche mese
fa: si tratta dell'Isola dell’amore proibito, di G.T.Garvis.
Di seguito la trama:
L'acqua
cristallina lambisce dolcemente i suoi piedi nudi. Anna apre gli occhi
all'improvviso e davanti le si apre la distesa sconfinata di un mare dalle
mille sfumature, dal turchese allo smeraldo più intenso. Intorno, una spiaggia
di un bianco accecante, ombreggiata da palme frondose.
Le dita della ragazza
stringono ancora spasmodicamente la mano di T.J., disteso accanto a lei,
esausto dopo averla trascinata fino alla riva. Anna non ricorda niente di
quello che è successo, solo il viaggio in aereo, la superficie blu che si
avvicina troppo velocemente e gli occhi impauriti di T.J., il ragazzo di sedici
anni a cui dovrebbe dare ripetizioni per tutta l'estate.
Un lavoro inaspettato,
ma chi rifiuterebbe una vacanza retribuita alle Maldive? E poi Anna, insegnante
trentenne, è partita per un disperato bisogno di fuga da una relazione che non
sembra andare da nessuna parte. Ma adesso la loro vita passata non è più
importante. Anna e T.J. sono naufraghi e l'isola è deserta.
La priorità è
quella di sopravvivere fino ai soccorsi. I giorni diventano settimane, poi mesi
e infine anni. L'isola sembra un paradiso, eppure è anche piena di pericoli. I
due devono imparare a lottare insieme per la vita. Ma per Anna la sfida più
grande è quella di vivere accanto a un ragazzo che sta diventando un uomo.
Perché quella che all'inizio era solo un'innocente amicizia, attimo dopo attimo
si trasforma in un'attrazione che li lega sempre più indissolubilmente.
Fidatevi
di me: è meraviglioso!
Le
regole per vincere una copia di questo romanzo sono semplicissime:
1)
Essere iscritti a questo blog e al mio canale YouTube
(potete fare entrambe le cose cliccando sulla colonna a destra!
2)
Condividere l’evento sul vostro blog, oppure su Facebook o Twitter.
3)
Scrivere qui sotto (oppure sotto il video in cui presento in giveaway) con chi
vorreste naufragare su un’isola deserta e cosa fareste se succedesse.
Il
commento più originale riceverà il libro direttamente a casa.
Vi
aspetto numerosi, e come sempre
viva la lettura!
Lei e l'altra
29 Mar 2013 5:41 PM (12 years ago)
Stai con lei perché, a
differenza dell'altra, lei ti ama.
Stai con lei perché tu le
vuoi bene, mentre lei ti ama da morire.
Stai con lei perché hai
la garanzia che non ti lascerà mai,
e tu hai il terrore di essere lasciato.
Stai con lei perché è
bruttina, anonima, rassicurante,
perché dalla vita vuole solo sposarsi e avere
figli.
Stai con lei perché non
ti tradirà, non ti mentirà, non si farà venire dei dubbi sulla vostra storia.
Non ti dirà "questa è l'ultima volta che ci vediamo" appena finito di
fare l'amore, non pretenderà la luna, il desiderio sfrenato, la magia.
Stai con lei perché se
non si è stancata di correrti dietro per anni mentre tu avevi perso la testa
per un'altra, beh, allora non si stancherà mai.
Starai con lei
probabilmente per sempre, la sposerai,
nonostante io e te sappiamo che lei non
ti darà mai nemmeno
il dieci per cento delle emozioni che ti dava l'altra.
Quell'altra che non sa
cosa vuole,
e probabilmente non sa neanche amare.
Quello
che non avrei mai creduto, che non ritenevo possibile e che la maggior parte
della gente non ritiene possibile è che un uomo e una donna, a un certo punto
della loro vita, dopo aver avuto avventure, amori e delusioni si incontrano, si
innamorano e realizzano un amore totale che dura anni e anni.
Come si presenta un amore totale? L’aspetto più semplice ma anche quello più
significativo è che essi quando sono insieme, in qualsiasi posto, facendo
qualsiasi cosa, parlando di qualsiasi argomento sono felici di esserlo. Provano
un piacere che nasce proprio dallo stare con l’altro, dalla presenza del suo
corpo, delle sue parole. E se non sono vicini fisicamente, parlarsi al telefono
di qualsiasi cosa, di loro stessi, commentando un film, un accadimento
politico, un libro, con l’impressione di essere a contatto, anche se sono
chilometri lontano.
Un
tipo di esperienza che non appartiene alla neutralità dell’amicizia, ma al
piacere erotico. Un piacere erotico leggero, come una vibrazione continua ma
che può, nel corso della giornata, intensificarsi improvvisamente e diventare
desiderio appassionato, incontro sessuale , fino a un’estasi che hanno imparato
a realizzare negli anni dicendosi cosa vogliono, cosa gli piace, con
semplicità, passando di piacere in piacere , di orgasmo in orgasmo.
Ma
finita la fusione sessuale, con la stessa naturalezza possono poi riprendere a
discutere, o a leggere, o a ricordare il passato quando si corteggiavano,
talvolta punzecchiandosi nel ricordare i loro vecchi amori.
I due amanti sanno
affrontare insieme anche il lavoro, le malattie, le difficoltà economiche, i
giorni del dolore, ma sempre sorretti dal sottile piacere di cui parlavamo
prima, il piacere dello stare insieme, dell’intimità, dell’esclusività, della
vita quotidiana che per loro non è mai quotidiana perché è sempre nuova, sempre
inattesa, sempre scoperta di qualcosa che non sapevano, che non si erano detti,
che non avevano visto di sé, dell’amato, del mondo. E così per anni, anni,
tanto più di quanto credevano.
Io
non sapevo che tutto questo fosse possibile, molta gente non ci crede, eppure e
vero. E
forse ho trovato anche una chiave di questo prodigio e l’ho messa nel libro “L’arte
di amare, il grande amore erotico che dura”.
(F.
Alberoni)
L’inizio della primavera
mi rende al contempo malinconica e intollerabilmente felice. Anzi no, non è
esattamente malinconia, è un sentimento strano che mi aleggia intorno, che mi
appesantisce e mi fa piangere, come una farfalla che vorrebbe tanto spiccare il
volo, ma non ci riesce.
Le ali sembrano fatte di piombo, il corpo è attratto
dal cemento da una forza di gravità ben più potente di quella terrestre. Forse è
proprio così che mi sento.
Dico forse, perché non è chiaro neanche a me. Strappata
in due, lacerata dentro, con una voglia infinita di completezza e l’impossibilità
di capire ciò che sento, di distinguere bisogno e paura, amore e solitudine.
A volte mi sento felice,
a volte le lacrime scendono da sole e non capisco cosa ci sia in me che non va.
Il problema è che io sono così sensibile che niente mi scivola addosso, ogni cosa
lascia il suo marchio, persino una piuma fisserebbe la sua impronta scivolando
sulla cera calda di cui mi sento fatta in questi giorni di metà marzo.
Come
cera, mi sciolgo.
Mi sciolgo in lacrime senza motivo, si scioglie il rimmel che
cola lungo le guance ma quel nodo che mi stringe la gola non si scioglie mai, e
ogni volta ho paura che non andrà più via.
Credo nelle vite precedenti perché
tutte queste sensazioni che provo sono decisamente troppe per una vita sola.
Oggi è stata
una giornata strana, sotto molti aspetti: una mattina di sole, tiepida a tratti, gelida all’ombra, con
un pomeriggio che già sapeva d’estate e di tutte le promesse che questa
stagione porta con sé. Promesse spesso disattese, senza le quali però non
potremmo vivere.
Vorrei svegliarmi una mattina di primavera e riscoprirmi pura,
intatta come forse un essere umano è soltanto quando per la prima volta
apre gli occhi sul mondo. Limpida e trasparente come l’acqua di un ruscelletto
che scende giù dalla vetta di una montagna.
A volte penso che la vita di ognuno di noi sia come
quel ruscelletto: una lenta ma costante discesa in cui non puoi fare a meno di
caricarti del fango che incrocia la tua via, della sporcizia di chi del tuo ruscello
si serve avidamente finché ha sete, e poi ci piscia dentro, cambiando strada.
Quando arrivi a valle, ti hanno ormai insegnato a essere torbida, a non lasciar
trasparire cosa c’è sul fondo, gelosamente custodito tra la sabbia spessa, i
ciottoli e il grigio delle acque.
La maggior parte della gente non si pone mai
il problema di ciò che è diventata, di quanto sia differente il suo reale modo
di essere da ciò che si costringe a provare, a vivere, a fare.
La maggior parte
della gente è sporca, è ambigua, è incattivita.
Non è davvero così, lo è diventata, ma in fondo si tratta di una situazione comoda, perché si può sempre dare colpa agli altri, alle delusioni, alla sofferenza patita.
C'è sempre una giustificazione per essere diventati stronzi.
E io sto lottando per non
diventare come loro - non voglio diventare come loro, quelle persone che cercano
di trascinarti nel loro inferno personale perché troppo infastidite dal vedere che
esiste ancora gente che ci crede, gente che porta rispetto ai sentimenti
e alle persone e che desidera vivere una vita vera, sincera.
Bruciate tra le fiamme che voi stessi avete acceso, dimenatevi nei vostri inferni, rotolatevi nella merda, visto che in fondo ci si abitua a tutto, ma
per piacere – per piacere – evitate di trascinare con voi le persone che dite
di amare solo per sentirvi meno soli, meno piccoli.
Meno miserabili.
Tanto
tempo fa stavo con un ragazzo che mi ripeteva di continuo che mi amava. Ed era
bello, sì, perché in fondo poche cose fanno felici una ragazzina come quelle
due magiche paroline dette dalla persona giusta.
Gli anni passavano, io
crescevo e lui continuava a ripetermi il suo amore tutti i giorni, più volte al
giorno. Nel frattempo le cose non andavano, gli episodi strani si
moltiplicavano e io mi sentivo inquieta perché nel mio cuore – ora lo so – il
presagio della fine era già chiaro, inequivocabile.
Eppure i suoi “ti amo” mi
martellavano in mente, confondendomi i pensieri.
Perché è così facile credere
alle parole, anche quando i fatti le sbugiardano senza appello?
Tutto quello
che accade intorno a noi – gli occhi che fuggono, le cose taciute, le menzogne quasi
automatiche, le piccole e grandi mancanze di rispetto e tutto ciò che la parte
più intima di noi riconosce come inganno – ebbene, tutto questo parla la lingua
silenziosa della verità, mentre le parole… in fondo sono solo parole. E
forse a volte ciò che si tace è molto più vero di quello che si dice.
Esiste
una sorta di pudore, nei sentimenti, che ci impedisce di spargerli ai quattro
venti come faremmo con le cose di cui in fondo non ci importa nulla.
Io non credo
a quelli che sentono il bisogno di urlare al mondo ciò che provano, come se
solo nominandolo l’amore fosse più vero, come se avessero bisogno di
convincersi che ciò che provano sia quel magico sentimento che inizia per “A”…
un sentimento di cui tutti parlano, ma che in pochissimi conoscono davvero. E
quei pochi tacciono, come fa chi custodisce un prezioso segreto.
Quel
ragazzo lontano di cui a stento ricordo la voce continuò a dirmi che mi amava
fino alla fine, ma io avevo ormai capito che le sue parole erano vuote,
involucri effimeri di un bene mutevole, un innamoramento acerbo ed egoista
destinato a estinguersi col venir meno della costante sfida che tiene in vita
gli amori basati sul possesso. O sul sesso.
Da
scrittrice, vi consiglio di non cedere mai alla malia delle parole: spesso la
verità che contengono è destinata a estinguersi assieme al fiato che serve a
pronunciarle. Credete
alle vostre sensazioni, quelle generalmente non mentono, e se lo fanno è sempre
per una buona causa: aiutarci a sopravvivere in attesa di tempi migliori. Guardate
in fondo al cuore, perché Lui sa sempre la verità, e ricordatevi che il vero
Amore non ha bisogno di rose, non ha bisogno di regali, gesti eclatanti o
canzoni strappalacrime, né deve convincere nessuno della sua esistenza… chi è
Amato lo sa senza ombra di dubbio, perché vive circondato dalla presenza, dalla
costanza e dalla silenziosa devozione.
Il resto sono parole.
Chi mi segue su YouTube
sa che ho deciso di non recensire più tutti i libri che recensivo un tempo, sia perché
materialmente non riesco più (ho le ore contate), sia perché stava diventando un vero e proprio lavoro –
e invece desidero continuare a godermi appieno libri che scelgo io, anche molto
vecchi (del resto un buon libro è per sempre). In questo modo, inoltre, potrò dedicare
più attenzione a libri che secondo me meritano davvero… come questo che vi
presento oggi e che vi consiglio vivamente, anche se non siete fanatici dei
saggi, perché comunque è di semplice lettura, diretto, immediato, mai noioso.
La vicenda è quella, nota ai più, del gruppo musicale “Pussy Riot!”, costituito
da tre ragazze russe arrestate perché hanno “osato” protestare contro quello
che è diventato un vero e proprio regime, ossia la Russia di Putin.
È un libro
che merita moltissimo, presto lo recensirò più dettagliatamente e spero anche
di riuscire a intervistare la bravissima autrice, Alessandra Cristofari, redattrice del magazine “Giornalettismo”.
Con la prefazione di
Sabina Guzzanti.
Sono donne, sono in tre e
hanno deciso di sfidare il regime dell’ultimo Zar di Russia. Putin le ha
spedite in prigione e le loro chitarre hanno smesso di suonare, ma la lotta
disarmata contro la censura di Stato continua.
Free Pussy Riot!, scritto con la
penna ironica e pungente di Alessandra Cristofari, svela la storia della punk
band, riportando notizie inedite e segreti che sinora erano stati taciuti e
raccontando, con rigore e dovizia di informazioni, la nascita del movimento, le
ragioni della protesta, il contesto storico, politico e religioso che la
circonda, e poi ancora: gli arresti, le esibizioni di forza di Putin, la Chiesa
ortodossa, la repressione dei dissidenti. Un viaggio magmatico nell’universo
della politica russa, che rende testimoniaza a chi ha avuto il coraggio di
spezzare con la propria parola il cemento dell’ingiustizia: Anna Politkovskaja,
Alexander Litvinenko, Anastasia Baburova, Natalya Estemirova, Leonid
Razvozzhayev sono solo alcune delle voci che si sono sollevate contro la
censura e l’imbavagliamento del sistema russo. Quando poi è la musica a diventare
protesta politica, tacere è davvero un delitto.
Ciao
amici lettori!
Oggi
vi scrivo perché vorrei un vostro parere su un racconto che sto scrivendo.
Questo è l’incipit. Non riesco a essere obiettiva con me stessa, ma tanto credo
non ci riesca nessuno… quindi siatelo voi, siate obiettivi, anzi, di più, spietati :-) !!! Un abbraccio, se potete commentate.
Velletri,
oggi.
Ancora
quella maledetta musica!
Era
tornato, come ogni settimana. Supponeva fosse trascorsa proprio una settimana
dall’ultima volta che era venuto a trovarla, ma non poteva saperlo con
certezza. Nessuno le diceva niente, lì, e lei non mai domandava nulla. Le
bastava starsene rannicchiata sotto le coperte e dormire. Avrebbe
voluto dormire per sempre. E invece quell’uomo non la lasciava in pace.
Entrava,
salutava cortesemente, sistemava il giradischi in un angolo e dopo aver
armeggiato un po’, iniziava la musica. Una musica orribile, che lei non voleva
sentire.
Ma
non voleva nemmeno parlargli. Perciò restava in silenzio, si faceva più piccola
tra le ruvide lenzuola d’ospedale, tirava la coperta infeltrita fin sulla
fronte e si premeva il cuscino contro le orecchie. Aspettava solo che l’uomo se
ne andasse.
Senza
di lui, le giornate trascorrevano avvolte da una rassicurante routine. A metà
mattina arrivava qualcuno a caricarla su una carrozzina per portarla a fare un
giro nel parco.
Era
primavera inoltrata, ma lei a volte sentiva così freddo, nonostante la coperta
che teneva sulle gambe, che era costretta ad aprire bocca per chiedere
all’infermiere di riportarla in camera.
Il
pomeriggio la sistemavano accanto alla finestra, e allora poteva osservare
indisturbata la danza delle foglie nel vento e i riflessi ambrati della pioggia
che luccicava sui vetri. Pioveva spesso.
Brevi
temporali primaverili che duravano il tempo di una canzone. Poi il sole
squarciava il cielo, concedendole qualche istante di abbagliante, rassicurante
cecità. Le piaceva stare alla finestra e osservare il mondo, un mondo di cui
non faceva più parte, ma provava anche molta paura. La
paura era iniziata il giorno in cui si era svegliata senza ricordare nulla. Si
era alzata, dolorante, perché lo stimolo di urinare era più forte del sonno.
In
bagno, aveva colto il riflesso dello specchio.
Dagli
occhi l’immagine aveva raggiunto la gola ed era esplosa in un urlo senza fine.
Roma,
1979
Camminava
senza una meta precisa per le vie della capitale.
Doveva
sforzarsi per non mettersi a correre. A volte, come quel giorno, aveva come
l’impressione di poter esplodere da un momento all’altro. Lei non era fatta per
quella vita. Lei voleva viaggiare, vivere d’avventura, sentire sul palato il
sapore salmastro dell’oceano e attraversare la Francia in treno, fino alla
vagheggiata Parigi, fino a mangiare brioches seduta a un tavolino affacciato su
un affollato boulevard, con le foglie rosse e gialle che volteggiano allegre
nel vento. Da lì raggiungere il porto di Marsiglia su un’auto decappottabile,
il vento a scompigliarle i capelli, mano nella mano con l’ultimo amante
francese e poi… Un urto improvviso la fa sbattere contro una panciuta massaia
dall’aria arcigna.
–
Signorina, ma guardi un po’ dove va! – la rimbecca quella, fissandola con odio.
Adele
non fa in tempo a scusarsi che è già sparita, i fianchi larghi ondeggianti
sotto il peso delle buste della spesa. Odore di pane croccante, ancora caldo,
appena sfornato. In quella città piena di traffico fa in fretta ad andar via.
La rabbia è svanita all’improvviso, sostituita da una familiare, cupa
rassegnazione. E voglia di piangere, che quella non l’abbandona quasi mai.
A
chi vuol darla a bere?, si chiede. La sua vita non cambierà mai.
La
sua vita è l’Ostiense e la bettola puzzolente di suo padre. La sua vita è la
botteguccia in cui lavora come sarta, una tra le tante che sperano di sposarsi
presto per sottrarsi a una vita fatta di aghi nelle dita e spine nel cuore. Non
è la vita che sogna lei. Accelera il passo, sa che se la signora non la vedrà
tornare nel giro di mezz’ora, saranno guai grossi.
Si
infila in una viuzza, magari farà prima.
Le strade corrono veloci mentre accelera
il passo e le manca il fiato, scansa fruttivendoli e pedoni, respirando a pieni
polmoni per togliersi di dosso quell’angoscia che la perseguita. Imbocca un’altra
stradina laterale e si ferma di colpo, confusa.
In
lontananza il Colosseo non si vede più, credeva di aver preso la direzione
giusta ma è ormai evidente che non è così. Si guarda intorno. Non riconosce le
case, le botteghe; persino il cielo ha un colore diverso in quella zona
sconosciuta di Roma. Il sole sta lentamente scomparendo, risucchiato da nuvole
color pece, i tuoni in lontananza annunciano l’arrivo di un temporale.
Fa troppo
caldo, da un po’ di giorni a quella parte. Il sudore si appiccica sulla pelle
anche di notte, quando dalla finestra spalancata l’alito afoso di luglio corre
sui tetti. È stanca, rassegnata, triste, e probabilmente perderà il lavoro.